LA FILOSOFIA DEI NAZIONALISMI EUROPEI

“LA FILOSOFIA DEI NAZIONALISMI EUROPEI”

SEMINARIO DI FILOSOFIA TENUTO DAL PROF. NICOLAO MERKER (UNIVERSITA’ DI ROMA “LA SAPIENZA”) DAL 13 AL 16 MARZO 2006 PRESSO L’ ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI DI NAPOLI. ATTI DEL CORSO A CURA DI MARCO MARTINI. ANNO ACCADEMICO 2005/06. I. I. S. F.  DI NAPOLI, VIA MONTE DI DIO, 14, PALAZZO SERRA DI CASSANO, NAPOLI.  PROGRAMMA DELLE GIORNATE DI STUDIO (6 H. IN TOTALE):

  1. L’idea di nazione e le filosofie nazionaliste (lun. 13/03/06, h. 16,00/17,30);
  2. La filosofia della potenza nazionale e razziale (mart. 14/03/06, h. 16,00/17,30);
  3. La filosofia dell’espansione coloniale (merc. 15/03/06, h. 16,00/17,30);
  4. Il populismo etnico in filosofia (giov. 16/03/06, h. 16,00/17,30).

Premessa.

Nicolao Merker è uno dei più acuti conoscitori della filosofia classica tedesca, dall’Illuminismo alla logica hegeliana, a Marx. Ha pubblicato numerosi saggi sul rapporto tra dialettica e storia in Marx e sul rapporto tra Hegel e Marx. Negli anni’60 si è distinto per i suoi studi di filosofia politica sulla scia di Galvano Della Volpe. E’ ordinario di filosofia politica all’Università << La Sapienza >> di Roma. Sul piano politico si colloca tra i pensatori marxisti e va ricordato anche per il contributo offerto alla metodologia marxista della storia. Negli ultimi anni ha studiato il tema del nazionalismo in Europa, sull’onda del pensiero gramsciano.

1.L’idea di nazione e le filosofie nazionaliste (lun. 13/03/06, h. 16,00/17,30, prima lezione).

Il concetto moderno di ‘nazione’ è molto diverso da quello che si aveva in età antica o medievale: nell’impero carolingio agli imputati, in tribunale, veniva chiesto a quale ‘natio’ appartenessero, quale fosse il loro luogo di nascita, le loro origini. Anche nel mondo classico è presente tale idea di nazione.

Alla fine del ‘700 l’idea di nazione cambia, e già nel 1740 in una lettera di Voltaire si sottolinea che la nazione non corrisponde “alle teste coronate ed alla loro corte”, ma alla borghesia, alla società civile intesa come una forza dinamica, in crescita. E’ questa l’idea di nazione che si diffonde nell’Illuminismo. Questo concetto è confermato alla vigilia della Rivoluzione francese, nel gennaio 1789, in un noto opuscolo dell’abate Sieyès, si legge che “la nazione è un corpo di associati che vive  sotto una legge comune”.[1] E’ ormai tramontata l’idea carolingia di nazione: al tempo di Carlo Magno non si prevedeva l’uguaglianza giuridica delle persone davanti alla legge, ma ogni persona veniva giudicata con leggi diverse in base al luogo di ‘natio’. L’uguaglianza dei diritti è una delle tre ‘parole d’ordine’ del motto illuminista ‘ libertà, fraternità, uguaglianza ’. Si appartiene ad una nazione non più per nascita, ma per comunanza di diritti politico-civili, come afferma l’art. 3 della “Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino” del 26 agosto 1789. Per ‘nazionalizzare’ uno straniero in Francia si doveva pretendere un giuramento di fedeltà alla nazione e nazione significa ‘comunanza di diritti ’: da questa linea nasce il moderno concetto di nazione, come afferma Chabod.[2]

Accanto alla ‘ linea illuminista ‘ ve n’è un’altra: quella del Romanticismo, per il quale l’elemento storico è invece quello fondamentale; in un certo senso, tale connotazione restrittiva sembra ricalcare il modello carolingio. E’ un connotato restrittivo perché tende ad escludere qualsiasi altro elemento. In Francia, i difensori della feudalità e della nobiltà osteggiarono tale moderna idea di nazione per rivendicare l’importanza delle origini, degli elementi primordiali ed originali: i romantici inseguirono appunto tale modello, come dimostra il celebre studio del revisionista Burke in cui si definisce come “mostruosa”[3] l’uguaglianza dei diritti. Burke afferma che la nazione è un ente metafisico, sovrastorico, basato sul sangue, sulla santità ed origine divina del potere monarchico. La nazione è quindi un concetto che appartiene al passato, alla nobiltà di lignaggio. Anche Friedrich Schlegel, in Germania, si colloca su questa concezione della nazione come legata alla stirpe: “tanto più antica è la stirpe, tanto più grande sarà la nazione.”[4]  Anche Joseph De Maistre, in Francia, ribadisce la santità del sangue reale e la derivazione della nazione dalla stirpe[5]. Nel Romanticismo tedesco, il filosofo Fiche ribadisce tale idea di nazione.[6]  Siam all’origine del binomio ‘nazione-stirpe’ o ‘sangue-stirpe’, binomio che si radicherà nei nazionalismi dell’Europa centrale ed approderà, in termini inquietanti, nel nazionalsocialismo tedesco di Hitler. Nel Romanticismo, Adam Muller, filosofo della politica, sostiene che i liberal-democratici, gli illuministi moderni, con la loro critica, sono estranei e nemici della nazione, e come tali vanno combattuti. I nemici ‘interni’ sono peggiori di quelli ‘esterni’ e nell’idea di nazione non sono ammesse critiche interne. In Fiche l’idea di nazione serve ad un fine politico, quello della guerra di liberazione, che deve configurarsi  in un movimento di indipendenza nazionale dallo straniero[7], in questo contesto dalla Francia. Non a caso, nel 1813 la Prussica entra a far parte della coalizione antinapoleonica. Tuttavia Fichte è un ‘romantico particolare’, in quanto lo Stato fichtiano è etico e laico, non fondato sull’alleanza tra monarchia ed altare; Fiche mostra addirittura, nell’ultima fase del suo pensiero politico, intorno al 1813, maggiori simpatie per la repubblica piuttosto che per la monarchia (si consideri che Fiche muore nel 1814 per aver contratto dalla moglie, che stava curando i soldati prussiani feriti dall’esercito napoleonico a Lipsia, il germe del colera).

Un altro importante elemento di nazionalità è costituito dalla lingua, considerato un segno mitico e sociale, nel quale coincidono popolo, nazione e razza: il filosofo Harondt afferma che i confini della nazione tedesca arrivano fin dove si parla la lingua tedesca; è un’ impronta biologico-razziale dell’idea di nazione. L’essenza biologico-razziale del popolo è l’etnia, la nazionalità di un popolo, il Volk. La nazione si regge solo se il popolo è ‘puro di sangue’, i popoli ‘meticci’ sono considerati più deboli, afferma Jan, considerato, insieme ad Harondt, un antesignano da parte dell’ideologia nazista. Ma tali idee trovano ripercussioni nelle filosofie nazionaliste della fine dell’Ottocento, e non solo in Germania, intendendo il termine ‘filosofia’ nell’accezione gramsciana di “visione globale”[8] del pensiero, molto ampia, come “pensiero di tutti i pensieri”.[9] Tale idea di nazione è un ‘microcomo’ che deve armarsi contro altri ‘microcosmi’, altre nazioni. Ciò avrà nefasti influssi quando s’identificherà la potenza di una nazione con la potenza razziale.

2. La filosofia della potenza nazionale e razziale (mart. 14/03/06, h. 16,00/17,30, seconda lezione).

La teoria in base alla quale ogni popolo sia il prodotto di un’essenza metafisica, il Volkgeist, ha dato origine all’idea di nazione come ‘ Grande Individuo ’: la nazione sarebbe quindi il prodotto di un’evoluzione biologico-razziale. Il ‘ Grande Individuo ‘, la nazione, tende, per sua natura, a scontrarsi con altri ‘ Grandi Individui ‘, con altre nazioni: quest’idea iniziò a circolare in Germania fin dalla metà dell’Ottocento, in seno alla Dieta di Francoforte, nel dibattito tra ‘ Piccoli Tedeschi ‘ e ‘ Grandi Tedeschi ‘. Questa è, nel 1848, ad esempio, la tesi dello storico tedesco Otto Abel, già fondatore di un’ideologia espansionistica. Heinrich Heine, poeta tedesco, intorno al 1840 osservò che, come sulla scia della Rivoluzione francese si era affermata l’idea di nazione come il complesso dei diritti di cittadinanza, si era contemporaneamente affermata la ‘ linea teutonica ‘ che, in contrapposizione alla ‘ linea francese ‘, riaffermava l’araldo della nazionalità, del sangue, della nobiltà di stirpe. La ‘ linea tedesca ‘, notava Heine, aveva più leva sulle “masse rozze”, poiché insisteva su “concetti forti” maggiormente sentiti dalla “rozza plebe” rispetto alle idee di “libertà”, “progresso”, “democrazia”, “luogo dei diritti umani generali”, cavalli di battaglia della linea francese, ma dal carattere più astratto e quindi più incline ad un pubblico intellettuale. Il politico Ruge, in seno al Parlamento di Francoforte, nel 1848, definì “brutale ed animalesca” la “linea teutonica”.

L’Ottocento è il secolo in cui, nell’Europa centrale ed in Italia, si assiste ai grandi movimenti razziali ed alla nascita di due importanti Stati nazionali unitari: Italia e Germania, rispettivamente con il Risorgimento italiano ed il ‘ Risorgimento tedesco ‘ grazie ad Otto Von Bismarck ed a Guglielmo I Hoenzollern. E’ il secolo in cui, sia pure a livelli differenziati, si sviluppa la Rivoluzione industriale (tranne che in Inghilterra, ove si era già attuata il secolo precedente). In Germania si era già realizzato lo Zollverein, cioè l’unione doganale dei 38 Stati tedeschi con l’abbattimento dei dazi, delle tasse alla frontiera dei vari Stati si doveva ora costruire lo Stato, la nazione c’era già, e per la costituzione dello Stato nazionale unitario l’elemento essenziale fu quello dell’unificazione nazionale. Anche in Italia il giurista Pasquale Mancini aveva sottolineato l’importanza dell’elemento linguistico. Ogni etnia, in base alla ‘ linea etica ‘, di origine, pretende di avere una superiorità  etica  sulle altre etnie, e questo è presente anche in Gioberti.[10]  Secondo Gioberti, la ‘ superiorità ‘, il primato etico dell’etnia italica consiste nella superiorità morale del papato e nella funzione universalistica svolta dalla Chiesa nella storia. In quest’ottica, si fa appello alla “purezza primordiale”: è questa la base del nazionalismo patriottico risorgimentale, sia italiano che teutonico. Ma, una volta partorita quest’idea di nazione, la nazione mira ad evolversi da tali origini mitico-arcaiche verso forme più moderne, funzionali alla nuova società industrializzata. L’elemento linguistico, nel Romanticismo risorgimentale, resta fondamentale, come testimoniano Alessandro Manzoni e Cesare D’Azeglio: la nazione è quella in cui si parla un’unica lingua. I paladini della teoria della superiorità etnico-razziale semineranno i germi per la nascita del razzismo. Già il Parlamento di Francoforte del 1848-49, pur avendo un carattere politico liberal-democratico, definì i polacchi come una minoranza da annettere, priva di diritti: in quest’idea di nazione non c’è spazio per il rispetto delle minoranze etniche, per una società interculturale, ma solo per la potenza, il dominio di un’etnia su un’altra. Heinrich Von Treitschke, nelle sue lezioni di filosofia politica,[11] tenute dopo il 1874 all’Università di Berlino, scrisse che lo Stato, espressione dell’etnia dominante, grazie alla sua potenza, include nel suo territorio anche altre etnie esterne, minoritarie sul piano numerico; tutte le minoranze etniche devono forzatamente essere ricondotte all’etnia dominante, in modo che in uno Stato non vi siano più etnie: “uno Stato bastardo è debole e già finito all’origine”.[12] Von Treitschke afferma l’ineguaglianza tra gli uomini, grazie alla quale un gruppo dev’essere subordinato ad un altro. Fu questa una teoria che circolò largamente in tutto il nazionalismo ottocentesco: la nazione più forte può e deve sottomettere quelle più deboli, che devono essere inglobate, dominate con la forza. Già Von Treitschke afferma con vigore la superiorità etnica dei tedeschi sui francesi: Von Treitschke pone i pericolosi germi del razzismo violento, in quanto, in un popolo, quello francese, trova tutti i difetti, ed in un altro, quello tedesco, scopre soltanto i pregi. Il mito della superiorità del tedesco in quanto obbediente e coraggioso è già presente durante la Grande Guerra. Ciò, come si è visto, domina il pensiero politico di Fichte,[13] mentre è molto attenuato nel giovane Hegel,[14] in cui si teorizza l’idea di uno Stato limitato, anche se potente nei suoi limiti, e non si arriva mai a formulare considerazioni razziali.

La frenologia del primo Ottocento arrivò addirittura a dichiarare la superiorità del ‘ tedesco medio ’ in base a motivi fisici, come, ad esempio, alla conformazione del cranio. Nel primissimo ‘800, sempre Hegel critica aspramente la fisionomica e la frenologia definendole due “pseudoscienze”.[15] Sempre in ambito specificamente filosofico, alla fine del secolo, Friedrich Nietzsche non si pone quale paladino del nazionalismo razziale, nonostante i fraintendimenti subiti, in quanto Nietzsche non è un pensatore che si può leggere in chiave politica, ma sostanzialmente speculativa; criticò l’antisemitismo e definì lo Stato come “il più freddo dei mostri, acerrimo nemico dell’oltreuomo e della cultura.”[16]

In sede politica, il nazionalismo tedesco esplode con la vittoria del 1870 a Sedan, contro i francesi, ma è con tali basi filosofiche e teorico-politiche, poste da Fichte e da Von Treitschke che il nazionalismo, alla fine dell’Ottocento, è pronto per proiettarsi fuori dell’Europa, in un’ottica che non può non essere che colonialista.

3. La filosofia dell’espansione coloniale (merc. 15/03/06, h. 16,00/17,30, terza lezione).

Ogni singolo Stato nazionale europeo, oltre agli Stati Uniti, aveva elaborato, alla fine dell’Ottocento, una propria filosofia, un insieme di idee e sentimenti che servì all’espansione coloniale. L’espansionismo delle nazioni europee, al di là delle singole filosofie, ebbe anche caratteri comuni, come quello che riteneva che la ricchezza di una nazione consistesse nell’incremento demografico, come affermò il sociologo tedesco Gustav Smoller. Smoller teorizzava che i popoli di cultura dovevano essere capaci di annettersi altri territori, allargando i propri confini, colonizzando quindi altri popoli; ciò fu concepita come una “missione culturale”, è il “popolo di cultura”, quel popolo che appartiene alle nazioni forti, in ascesa; questo scrive Smoller esattamente proprio nel 1900, questa è la “missione culturale dei popoli occidentali”: Smoller parla già del pericolo delle “razze inferiori” per le “razze superiori”; è il caso, afferma Smoller, dei cinesi che invadono, con le loro migrazioni, gli U.S.A., e degli slavi, che hanno invece invaso la Germania Orientale. Si tratta di “razze inferiori” perché “di sangue impuro”. E’ una tesi eurocentrica che concepisce tutta l’Europa Occidentale come una ‘ Grande Nazione ‘. Su questi assiomi si sono retti sia il colonialismo classico di fine ‘800 che l’industrialismo capitalistico dal carattere “imperialistico”. Il colonialismo europeo si era già verificato, da parte di Spagna e Portogallo, tra la fine del ‘400 e l’inizio del ‘500: già in quel tempo si parla di “superiorità dei conquistadores”, ma non esiste ancora una “filosofia dell’espansione coloniale”, anche perché è ancora debole il concetto di “Stato nazionale”. Si conquista in nome di Dio e del re, come testimonia anche la ricca iconografia del Rinascimento, che raffigura la croce, la bandiera del monarca, i soldati spagnoli o portoghesi e gli indigeni. Nel 1803 lo storico John Malcolm, futuro governatore inglese dell’India, sottolineava la necessità, addirittura, di una guerra preventiva contro gli indigeni dell’India, perché ciò avrebbe giovato allo sviluppo della civiltà. Nel 1892 “si levano i calici” alla colonizzazione dell’Africa, che avviene da parte delle potenze europee, “ognuna sotto la propria bandiera”, come affermano i governanti tedeschi della fine dell’Ottocento; il governo sostiene che bisogna “pacificare i selvaggi dell’Africa”, con riferimento alla conquista tedesca del Togo del 1884, prima colonia tedesca nel ‘ continente nero’. Nel 1886 il governo tedesco autolegittima l’uso della forza in caso di ostacolo alla propria “missione civilizzatrice” nei confronti dell’Africa. Anche in Francia, negli stessi anni, si afferma che il colonialismo può affermarsi legittimamente “con i cannoni e con il commercio”. La filosofia colonialista muove dall’assunto della propria superiorità razziale e della propria missione da compiere, quella di civilizzare; già nel primo Risorgimento, negli anni ’40 Mazzini auspicava una “Tunisia italiana”; la civiltà va quindi imposta con la forza; anche la Chiesa cattolica appoggia il colonialismo come “espansione della civiltà”. Parallelamente alla tesi della missione civilizzatrice si fa strada anche la tesi dello spazio vitale,necessario alle razze superiori: questa ideologia approderà al nazionalsocialismo hitleriano. Non a caso la tesi dello spazio vitale è portata avanti da storici tedeschi, come Friedrich Ratzel, che sottolinea la necessaria espansione del popolo tedesco verso Est, con l’annessione dei popoli slavi. La tesi dello spazio vitale diede origine, proprio in Germania, alla nascita di una nuova disciplina, la geopolitica. La geopolitica ha motivazioni ‘ più pratiche ’ ed aliene dal misticismo civilizzatore: gli indigeni vanno eliminati o sottomessi perché rappresentano semplicemente un “ostacolo”, un “impiccio” al necessario “spazio vitale” del quale abbisognano le “razze superiori”. Si tratta quindi di due tesi parallele, prive di reciproche interferenze, quella della missione civilizzatrice e quella dello spazio vitale; quest’ultima fu una tesi forte particolarmente in Germania. Già nella prima guerra mondiale la Germania parla infatti della ricerca di un “necessario spazio vitale”. Alla fine dell’Ottocento tale tesi era già stata coniata persino da pensatori socialisti, anche se spogliata della connotazione di superiorità razziale; è il caso, nel primo Ottocento, del socialista Cabet, che afferma la necessità, per la Francia, di uno “spazio vitale”[17]; anche seguaci di Saint-Simon e Robert Owen condividono tali tesi. Solo il rivoluzionario Blanqui critica qualsiasi forma di colonizzazione come negazione della civiltà. Nel 1848, Engels, in una sua corrispondenza con un generale inglese, parlando della conquista francese dell’Algeria, iniziata con la monarchia assoluta di Carlo X nel 1830, definisce la conquista “un progresso della civilizzazione”. Engels aveva salutato come un progresso anche la conquista del Messico da parte degli Stati Uniti. Nel 1853 persino Marx, parlando della conquista inglese dell’India, esalta l’opera degli inglesi, che devono “occidentalizzare l’India, spazzando via la vecchia società orientale”. In una lettera scritta da Engels a Marx nel 1851 si legge che anche la Russia “compie opera di civiltà nel Mar Nero e nel Mar Caspio”, con la colonizzazione della zona al di là degli Urali, in quanto porta germi di modernità. I Paesi coloniali sarebbero, nell’ottica di Marx e di Engels, portatori di quei germi di modernizzazione industriale indispensabili per la futura rivoluzione comunista. Anche Karl Kautzky parla di “attività civilizzatrice” del colonialismo ed il socialista revisionista Edward Bernstein  parla addirittura di “selvaggi inferiori” e di “superiorità etico-civile dei Paesi industriali borghesi”. Tali tesi socialiste sul colonialismo approderanno nel 1889 alla II Internazionale Socialista. Come si può notare, la dottrina socialista risente anch’essa del clima culturale che si respira in Europa dopo la Rivoluzione industriale. L’eurocentrismo approderà anche nella dottrina del marxismo-leninismo, definita da Stalin dopo la fine della seconda guerra mondiale. Le nazioni europee ritengono quindi di avere il ‘ diritto-dovere ‘ di ‘ esportare la civiltà ‘. A ciò diedero un inevitabile contributo anche gli studi di genetica attivati nel clima culturale e scientifico del Positivismo.

4. Il populismo etnico in filosofia (giov. 16/03/06, h. 16,00/17,30, quarta lezione).

Il populismo riguarda un modo particolare di intendere i connotati di una comunità alla quale diamo la definizione di ‘ popolo’. Per il populismo vale quella particolare identità, quella particolare lingua, religione o tradizione; il populismo si riferisce ad uno specifico gruppo etnico o popolo per le peculiarità proprie di quel popolo. Il connotato principale del populismo è quello di ricercare quindi quelle caratteristiche che distinguono quello specifico popolo da tutti gli altri; il populismo ricerca perciò particolarità etnico-culturali ed anche etnico-razziali. Una particolarità è un’alterità che distacca il gruppo in oggetto da tutti gli altri: è questa l’alterità passiva. Ma c’è anche un’alterità attiva, quando il comportamento di quel gruppo si manifesta come ostilità verso altri gruppi. Esistono varie forme di populismo: linguistico, etnico, religioso, razziale. Talvolta un connotato può sommarsi ad un altro. In ogni caso non può esistere un  ‘ ponte di mediazione ’, ossia un luogo di incontro tra le varie identità, tra le varie etnie. E’ il caso delle tribù, microcosmi che non si aprono a mediazioni. Si possono distinguere due forme di populismo etnico: la variante etnico-culturale e quella etnico-razziale. Tale visione è sfociata in seguito in ambito politico. In tale senso la tribù tende ad assomigliare sempre più ad un ‘accampamento’, ad un ‘campo armato’ che necessita inevitabilmente di un condottiero, di un capo tribù. Tale concezione si è storicamente concretizzata in Europa dalla seconda metà dell’Ottocento a tutta la prima metà del Novecento. Nel ‘900 è il caso del fuhrer in Germania, ma anche del duce in Italia e del caudillo in Spagna: è una riedizione contemporanea del sovrano assoluto, delle monarchie di Filippo II di Spagna e di Luigi XIV di Francia, tutte forme politiche caratterizzate dal venir meno del principio democratico-montesquieauano della separazione dei poteri. Il capo ha infatti poteri assoluti. In Gemania, dopo la vittoria dei francesi a Sedan nel 1870, Alsazia e Lorena tornano all’impero germanico: nel 1871, con la pace di Francoforte, i prussiani affermano di doversi riprendere, con Alsazia e Lorena, le “stirpi originarie”.

Nel 1938 la politica hitleriana dell’Anschluss (annessione) ribadisce tale dottrina: estendere i confini della Germania fino a quei luoghi in cui si parla la stessa “lingua madre”, in questo caso il tedesco. Hitler scrisse nel Mein Kampf che la nazione nasce grazie al dominio delle tribù ariane, unite tra loro, sulle altre “razze inferiori”; soggiogare i popoli ritenuti “inferiori”[18], come gli slavi, è per la dottrina nazionalsocialista un diritto. Tale dottrina rafforzava il proprio fondamento se trovava un appoggio nell’antichità, nelle origini, nel mito, ad esempio, dell’antico germano, del cavaliere teutonico, o dell’antico italico per l’Italia. Già nel 1790 lo storico revisionista inglese Edmund Burke[19] sottolinea l’importanza del “patto di sangue”. Nel primo ‘800, il geopolitica Karl Haushover affermava che la stirpe nasce sulla “compenetrazione di un patto di sangue e di terra”. Acquista importanza, in questo contesto, la sorgente antica, nascosta, che solo pochi iniziati possono conoscere. Moris Barrès, nazionalista francese, alla fine dell’Ottocento chiamava all’appello i francesi sull’idea di un “antico patto tra vivi e morti”. Ci si appella, per sposare tali dottrine esoteriche e nazionaliste, a facoltà non razionali, ma al sentimento, all’intuizione, come afferma Oswald Spengler, storico tedesco dell’Ottocento, in un suo noto studio: “è la visione che vivifica, la continuità del sangue, non l’intelletto”.[20] Attestata l’importanza della razza e del sangue, è in seguito molto facile chiedere il consenso della massa, mentre è molto più difficile la ricerca di tale consenso su basi razionali; “ogni popolo è un solo corpo”[21], scrive ancora Spengler, e ciò pone le premesse per i rapporti conflittuali tra le varie nazioni, tra i vari popoli, concetto che sarà ereditato in seguito dal nazismo. La trasposizione di idee etniciste in campo politico avviene quando le tesi sulle differenze etniche tra i vari gruppi, che oggettivamente esistono, si traducono in diritti: il diritto politico etnicizzato è soltanto proprio di quella etnia che ha in comune lingua, cultura, religione, usi, costumi, tradizioni. Un antidoto a tali teorie etniciste e nazionalistiche è offerto dagli scambi economici, dal rinnovato uso della ragione nelle tesi cosmopolitiche dell’Illuminismo, nei processi di integrazione multiculturale, che già si trovano durante le invasioni barbariche o nel dominio arabo in Europa, nel Medioevo; i processi di integrazione si sono quindi verificati ed hanno camminato parallelamente allo sviluppo delle tesi nazionaliste. Lo scritto kantiano Per la pace perpetua, alla fine del ‘700, auspica una convivenza pacifica tra tutte le genti:è stato questo un validissimo antidoto teorico ai processi di disgregazione. Un antidoto giuridico è costituito dai diritti di cittadinanza, che stabiliscono l’uguaglianza normativa tra tutti coloro che vivono all’interno di una comunità. Le tesi razziste contemporanee affermano invece che il mescolamento delle culture, che è di fatto un processo fisiologicamente e storicamente inarrestabile, costituirebbe un “etnicidio”. Anche le avvertite necessità di tutela delle minoranze etniche, secondo Nicolao Merker, costituirebbero una “xenofobia mascherata”, nella quale si traspongono le concezioni razziste. Sono questi i fondamenti, purtroppo, di movimenti politici separatisti e pseudo federalisti presenti oggi in Italia. Nessuna ‘muraglia’, nessun ‘muro’ è mai riuscito nell’assurdo ed utopico progetto di preservare un’etnia da un’altra. Ogni ideologia di ‘ chiusura etnica ’ non è quindi uno strumento per orientarsi nel presente, come in Germania ha affermato anche il filosofo contemporaneo Jurgen Habermas, per il quale i sistemi politici devono sganciarsi dalle teorie etniciste. La tesi di Habermas è confermata da studiosi e sociolinguisti contemporanei, anglosassoni ed italiani. La teoria etnicista rivendica un  ‘ passato di purezza ’ che, di fatto, come si è precedentemente visto, è mai esistito, fin dalle invasioni barbariche nell’Alto Medioevo. Una uniformità etnica, nell’attuale società multietnica e globalizzata, è quindi una pura fantasticheria che alimenta soltanto sterili divisioni ed inutili contrasti.

BIBLIOGRAFIA:

-Burke Edmund, Riflessioni sulla rivoluzione in Francia, in Scritti politici, a c. di A. Martelloni, Utet,

Torino, 1963;

-Cabet, La rivoluzione del 1830, 1833;

-Chabod Federico, Storia dell’idea di nazione, Einaudi, Torino;

-De Maistre Joseph, Del papa, in I controrivoluzionari, a c. di C. Galli, Il Mulino, Bologna, 1981;

-Fichte Johann Gottlieb, Discorsi alla nazione tedesca, Utet, Torino, 1965;

-Gioberti Vincenzo, Del primato morale e civile degli italiani, 1843, a c. di U. Redanò, Milano, 1938;

-Gramsci Antonio, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, in Quaderni dal carcere, II, Editori

Riuniti, Roma, 1979;

-Hegel Georg Wilhelm Friedrich, Fenomenologia dello Spirito, a cura di E. De Negri, La Nuova Italia,

Firenze, 1979, 2 voll.;

La costituzione della Germania, in Scritti politici, a c. di C. Cesa,

Einaudi, Torino, 1974;

-Hitler Adolf, Mein Kampf, Homerus, Roma, 1971;

-Kant Immanuel, Per la pace perpetua;

-Nietzsche Friedrich, Al di là del bene e del male, in Opere complete, trad. it. di F. Masini, a c. di G.

Colli e M. Montanari, vol. VI, tomo 2, Adelphi, Milano, 1990;

-Schlegel Friedrich, Lezioni filosofiche, 1805-06;

-Sieyès Emmanuel Joseph, Che cos’è il Terzo Stato?;

-Spengler Oswald, Il tramonto dell’Occidente;

-Von Treitschke Heinrich, Lezioni sulla politica.

I N D I C E:

La filosofia dei nazionalismi europei. Premessa                                                             p.1

L’idea di nazione e le filosofie nazionaliste (prima lezione)                                             p.1

La filosofia della potenza nazionale e razziale (seconda lezione)                                     p.2

La filosofia dell’espansione coloniale (terza lezione)                                                      p.3

Il populismo etnico in filosofia (quarta lezione)                                                              p.4

Bibliografia                                                                                                                 p.6

Indice                                                                                                                        p.6


[1] Cfr. E. J. Sieyès, Che cos’è il Terzo Stato?

[2] Cfr. F. Chabod, Storia dell’idea di nazione, Einaudi, Torino.

[3] Cfr. E. Burke, Riflessioni sulla rivoluzione in Francia, in Scritti politici, a c. di A. Martelloni, Utet, Torino, 1963, pp.

212-14 e 255-58.

[4] Cfr. F. Schlegel, Lezioni filosofiche, 1805-06.

[5] Cfr. J. De Maistre, Del Papa, 1819, in I controrivoluzionari, a c. di C. Galli, Il Mulino, Bologna, 1981, pp.79-87, 97.

[6] Cfr. J. G. Fichte, Discorsi alla nazione tedesca, IV, Utet, Torino, 1965, pp. 75-78.

[7] Ibid. , VIII, pp. 148-53.

[8] Cfr. A. Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, in Quaderni dal carcere, II, Editori Riuniti, Roma,

1979.

[9] Ibid.

[10] Cfr. V. Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, 1843, a c. di U. Redanò, Milano, 1938.

[11] Cfr. H. Von Treitschke, Lezioni sulla politica.

[12] Ibid.

[13] Cfr. J. G. Fiche, Discorsi alla nazione tedesca…, cit.

[14] Cfr. G. W. F. Hegel, La Costituzione della Germania, in Scritti politici, a c. di C. Cesa, Torino, Einaudi, 1974.

[15] Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, a c. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze, 1979, vol. II.

[16] Cfr. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, in Opere complete, trad. it. di F. Masini, a c. di G. Colli e M.

Montanari, vol. VI, tomo 2, Adelphi, Milano, 1990.

[17] Cfr. Cabet, La rivoluzione del 1830, 1833.

[18] Cfr. A. Hitler, Mein Kampf, Roma, Homerus, 1971.

[19] Cfr. E. Burke, Riflessioni…, cit.

[20] Cfr. O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente.

[21] Ibid.

LA FILOSOFIA DEI NAZIONALISMI EUROPEIultima modifica: 2015-05-11T12:34:47+02:00da m_200
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