L’estetica in Platone ed in Aristotele.

Platone: la condanna dell’arte imitativa e la funzione pedagogica del mito.

 

Il primo filosofo ad offrire una riflessione critica sull’arte fu Platone (V°/IV° sec. a. C.): le sue considerazioni influenzeranno la storia dell’estetica, e quindi una parte del pensiero filosofico occidentale, fino al Romanticismo, e questo è un fatto davvero singolare. Prima di affrontare la concezione estetica del filosofo occorre mettere in luce i due punti nodali del suo pensiero: 1) la metafisica e 2)la politica.

Per quanto concerne la metafisica Platone sostiene che vi siano due piani dell’esistenza, uno terreno, temporale, cadùco, soggetto quindi a corruzione e a mutamento, l’altro immateriale, spirituale, eterno, metafisico. La realtà sensibile è collocata nel mondo in cui viviamo, mentre quella metaempirica ha sede nell’Iperuranio o mondo delle Idee, un mondo sopra i cieli in cui sono presenti tutti i modelli delle cose che noi conosciamo sensibilmente. Ad esempio, noi vediamo il cavallo terreno, che per Platone è la copia di un modello ideale, perfetto di cavallo che vive nell’Iperuranio, e questo per tutte le cose (tranne che per realtà infime, come i capelli, le unghie, gli escrementi, che non hanno archetipi). Tutto ciò che esiste sulla terra non è altro, quindi, che la copia, l’imitazione materiale, imperfetta e finita di modelli ideali, perfetti, eterni che trovano luogo nel mondo delle Idee. Le copie terrene, prosegue ancora Platone, “partecipano” dell’Idea o modello, nel senso che ne sono la copia: noi, ad esempio, chiamiamo “cane” ogni  animale che partecipi dell’idea di cane, che abbia cioè le caratteristiche fondamentali del cane.

Dall’analisi metafisica si deduce quella politica, espressa da Platone nella Repubblica: dobbiamo ricercare nel mondo terreno quella forma di governo più vicina possibile alla perfezione. Egli sostiene la necessità di un governo retto da filosofi che garantisca, al suo interno, il totale comunismo, compresa la comunanza di mogli e figli. Parlare di comunismo in Platone può però essere fuorviante: il comunismo platonico non ha niente a che fare con le odierne forme politiche di comunismo, ma significa solo “gestione comune di ogni bene”. Il fatto che il comunismo predicato da Platone non possa essere ricondotto alle odierne concezioni politiche è dimostrato dal fatto che il Platone politico, nella storia del pensiero filosofico, è stato punto di riferimento tanto per la sinistra marxista quanto per la destra conservatrice. Il comunismo serve, secondo Platone, per eliminare il più possibile l’egoismo e gli interessi privati che caratterizzano ciascun uomo e far sì che gli uomini s’interessino più del buon funzionamento dello Stato che degli interessi personali e familiari. In questo senso il comunismo platonico è veramente radicale: persino i bambini dovevano essere strappati alle madri appena nati e educati in comunità e cresciuti tutti insieme.

Platone ha così delineato i fini superiori dell’uomo: dal punto di vista teoretico cercare di conoscere le Idee, ed in modo particolare l’Idea di Bene, che è la più alta ed è la causa di tutte le altre; dal punto di vista pratico realizzare questa società perfetta, in cui si ha tutto in comune e ci si interessa solo del bene dello Stato.

All’interno di questo sistema filosofico si può comprendere come mai Platone abbia elaborato un giudizio negativo dell’arte. Le ragioni di un tale giudizio sono infatti due, una legata alla metafisica, l’altra alla politica. Dal punto di vista conoscitivo l’arte allontana l’uomo dalla verità in quanto è una copia di una copia, l’imitazione di un’imitazione: una statua è può essere, ad esempio, la rappresentazione di un uomo, che a sua volta è una copia dell’Idea di uomo. Se è difficile cogliere la verità partendo dalla realtà, è ancora più difficile ricercare tale verità partendo dalla copia di una realtà. L’opera d’arte è una riproduzione ulteriormente imperfetta in quanto maggiormente distante dal modello originario. Gli artisti, invitando il pubblico a contemplare le loro opere, hanno arrecato un grave danno all’umanità, anche se inconsapevolmente, quello di allontanarli sempre più dalla contemplazione delle forme perfette dell’Iperuranio per concentrali sulla contemplazione di copie di copie. Tra le arti, in modo particolare Platone condanna come doppie imitazioni pittura e scultura, ma anche la poesia:  nella Repubblica (un complesso di 10 libri, scritti in forma dialogica, come tutte le opere del filosofo) critica fortemente il poeta, che, quando compone, è un invasato, è fuori di sé. Nel X° libro della Repubblica (598 c) in particolare Platone critica le sdolcinate musiche orientali, che distraggono l’uomo dalla contemplazione; la teoria musicale, per il suo aspetto matematico, è invece accettata da Platone (si pensi all’importanza attribuita dal filosofo alla matematica nel Timeo). Il mito si salva invece dalle condanne platoniche, in quanto non è una “copia di una copia” e non azzarda dimostrazioni: lungi dal descrivere il mondo sensibile, il mito è un racconto non dimostrativo riferito ai supremi problemi filosofici.

Le arti tradizionali sono analogamente condannate da Platone perché allontanano l’uomo dal progetto politico di realizzare uno Stato in cui tutti vivono ricercando il bene dello Stato stesso, come si è detto. Per evitare di ricadere nell’egoismo bisogna eliminare qualsiasi emozione e qualsiasi passione, che sono l’attività più bassa della ragione umana (quella più alta è invece la ricerca della verità, come si è visto): la poesia e la tragedia non fanno altro che suscitare emozioni ignorando l’equilibrio, l’ordine, la misura, che sono invece caratteristiche fondamentali di virtù politica; quando si devono infatti prendere decisioni fondamentali per la polis, ci vuole il massimo dell’equilibrio, e non ci si può quindi abbandonare ai sensi.

Si consideri infine che quando Platone condanna l’arte non condanna anche il “bello”, in quanto il bello non è riferito all’arte, ma alla metafisica, alle Idee: il bello è la manifestazione evidente delle Idee, cioè dei valori ed è pertanto la più facile via d’accesso a tali valori (cfr. Fedro, 250 e). L’arte era quindi disgiunta dal bello ed era definita “poetica” cioè arte produttiva (cfr. Sofista, 265 a).

 

 

L’  “amore platonico”.

 

La bellezza non è collegata all’arte, ma all’eros (  ero ), all’amore, all’Idea di Bellezza, alla Bellezza in sé. Per il greco il Bello coincide con il Bene, e quindi l’Amore conduce all’Assoluto. L’analisi platonica di Amore è splendida: Amore non è né divino, né umano, né mortale, né immortale, né sapiente, né ignorante, né maschio, né femmina: è “filo-sofo”, cioè aspira alla sapienza, costantemente la cerca, come fa l’amante. Il vero amore è desiderio del bello, del bene, della sapienza, dell’Assoluto. L’amore fisico è il grado più basso dell’amore; poi c’è il grado degli amanti del bene, delle pure scienze, della giustizia; infine c’è l’Idea folgorante del bello in sé, dell’assoluto. Nel Fedro Platone approfondisce il tema dell’amore collegandolo alla dottrina della reminiscenza: l’anima, nella sua vita originaria, ha visto il mondo delle Idee, poi è precipitata nei corpi, ma faticosamente si ricorda le Idee, in particolare quella di Bellezza, che è la più evidente: osservando la bellezza nelle cose empiriche (dell’esperienza o empirìa = empeiria), l’anima s’infiamma del desiderio di raggiungerla: l’ “Amore platonico” è quindi “nostalgia dell’Assoluto”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Aristotele e la rivalutazione dell’arte. La poetica come scienza pratica.

 

Aristotele (nato a Stagira, in Tracia, e per questo detto “lo stagirita”,  nel 384-383 a. C., e morto a Calcide, sempre in Tracia, nel 322 a. C. ) insieme a Platone è l’altro pilastro del pensiero antico: figura dagli interessi enciclopedici, a differenza di Platone ha esaminato separatamente le varie discipline all’interno del suo sistema filosofico, e questo ha reso possibile una trattazione della sua concezione estetica senza far necessariamente riferimento alla globalità della sua filosofia.

Anche per Aristotele, come per Platone, l’arte è essenzialmente imitazione: la tragedia, la forma teatrale più nobile per lo stagirita, è imitazione di persone ed eventi superiori al comune, la commedia è imitazione di persone e fatti inferiori alla norma; la commedia, all’interno dei generi teatrali, era infatti ritenuta meno nobile da Aristotele rispetto alla tragedia, perché l’argomento serio era considerato più nobile di quello leggero. Anche la poesia, per Aristotele è un’imitazione. Nel cap. 6 del I° libro della Poetica, Aristotele afferma che adesso, ossia nel I° libro, parlerà della tragedia, mentre l’arte del comico, ossia la commedia, sarà trattata “in seguito”. Non essendo mai pervenutoci il II° libro dell’opera, ciò ha rappresentato e rappresenta un punto oscuro dell’intero corpus aristotelico: Aristotele ha scritto veramente un libro dedicato alla commedia? E’ andato perduto? Se è andato perduto, per quali motivi e quando? Alcuni successori di Aristotele negano che il filosofo abbia mai scritto  questo libro, altri si avventurarono fino a ricostruirne il contenuto. E’ comunque strano che Aristotele annunci un’opera senza scriverla, anche se questo non è l’unico mistero del pensiero di Aristotele e non è l’unico mistero della letteratura greca. Anche nella letteratura italiana troviamo spesso autori che non mantengono quanto promesso (Alessandro Manzoni non scrive 12 Inni Sacri per celebrare tutte le festività principali della Chiesa, come aveva annunciato, ma soltanto 5, come Luigi Pirandello, per fare un altro esempio, non scrive 365 Novelle per un anno, come promesso, ma molte meno). Il mistero del II° libro della Poetica ha dato origine all’affascinante intreccio narrativo de Il nome della rosa di Umberto Eco.

Aristotele, a differenza di Platone, esalta l’arte come imitazione della natura (per Platone era la “copia di una copia” e per questo lontanissima dal mondo delle idee), in quanto l’arte è un’imitazione creativa, poiché l’artista non si limita a copiare, ma rielabora sempre personalmente, anche quando s’ispira fortemente a ciò che vede in natura. L’arte è inoltre catarsi, non dalle passioni, ma come piacere estetico. Nel I° libro della Poetica Aristotele esalta in particolare l’arte tragica, il mito dell’eroe greco (si notano anche qui i nessi tra poetica e politica). Aristotele determina con precisione i canoni estetici, cioè le caratteristiche che una tragedia deve possedere per potersi considerare artisticamente valida. La tragedia deve avere un carattere unitario, deve cioè possedere tre unità: di tempo (deve svolgersi nell’arco della medesima giornata), di luogo (deve svolgersi in un solo spazio, senza cambiamenti di scena) e di azione (deve possedere un unico filo conduttore, senza intrecci collaterali o filoni di trama paralleli, deve avere quindi solo la “fabula” e non l’ “intreccio”). Solo se possiede queste tre caratteristiche una tragedia può essere utilizzata, dai fruitori, come mezzo d’elevazione spirituale e morale. La tragedia non deve riguardare il vero, perché di esso si occupa la storia, ma il verosimile, per illustrare una situazione che abbia possibilità di realizzarsi.

Sempre nella Poetica Aristotele parla della struttura ideale che un poema deve avere e distingue quattro parti essenziali ed ulteriormente indivisibili in cui esso va articolato nella sua preparazione. Il primo elemento da considerare è il mito (mito ), ossia il tema centrale da narrare. Il secondo fattore è l’etica (eto ), cioè il ritratto morale e psicologico dei personaggi. Il terzo canone è quello della dianoetica (dianoia ), vale a dire l’impianto culturale del poema, ossia tutti quei fatti che l’autore deve conoscere per ambientare la storia che ha deciso di raccontare. L’ultimo criterio riguarda il lessico (leci  ) con cui affrontare la trattazione, ossia il linguaggio da adottare per comunicare con il pubblico cui si prevede sia destinato il poema. Come si evince da quanto affermato, l’aspetto morale permea la poetica aristotelica, che si può quindi definire una “scienza pratica”.

Come si può notare, questi canoni aristotelici risultano essere molto generici, e proprio per questo hanno resistito all’usura dei secoli e risultano applicabili anche alle forme d’arte contemporanee.

Come abbiamo visto, Platone condannava l’arte perché, tra gli altri motivi, suscitava passioni: Aristotele non è d’accordo, perché anche gli episodi passionali e violenti liberano l’anima dalle tensioni accumulate ed hanno quindi un effetto catartico (purificatore). Un’azione violenta, distruttrice o autodistruttrice,  per Platone suggeriva allo spettatore di imitarla, per Aristotele, al contrario, liberava uno spettatore, potenzialmente violento, dalla voglia di compiere atti violenti: scaricate infatti le proprie emozioni attraverso l’arte, non si sente più il bisogno di scaricarle nella realtà. Abbiamo detto inizialmente che per Aristotele, come per Platone, l’arte è imitazione, e non è quindi la realtà ad imitare l’arte, ma l’arte ad imitare la realtà. E non è neanche vero, per Aristotele, che un politico, turbato da una tragedia, non sia sereno per prendere decisioni inerenti il bene della città: tutt’altro, quel politico sarà meglio disposto, nel proprio animo, ad operare per il bene proprio dopo aver fruito del prodotto artistico.

In conclusione, in Aristotele il ribaltamento rispetto alle posizioni platoniche sull’arte è netto ed evidente: entrambi partono dalla medesima constatazione sul fatto che l’arte è imitazione, ma approdano a soluzioni opposte. Per Aristotele l’arte non è infatti più una realtà negativa.

Si tenga infine presente che i precisi canoni estetici elaborati da Aristotele avranno una grossa fortuna nei secoli successivi, in particolare nel Medioevo, anche se tale precettistica ritarderà l’accettazione dell’arte come disciplina autonoma e fine a sé stessa, ossia libera da vincoli morali di ogni tipo.

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