Che cos’è la filosofia indiana? On a forthcoming introduction to Indian philosophy

Mercoledì 8 novembre, ore 10 – 11:30 – seminario tenuto in lingua inglese.
Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli in collaborazione con l’Università di Napoli “L’Orientale”, seminario del Prof.
Vincent Eltschinger(École Pratique des Hautes Études)
Che cos’è la filosofia indiana?
On a forthcoming introduction to Indian philosophy
Il relatore è professore ordinario di “Storia della filosofia indiana” all’Alta Scuola di Studi Umanistici dell’Università di Parigi ed è un prestigioso studioso di storia dell’India. Ha scritto un interessante studio di introduzione alla filosofia indiana che ha avuto un notevole successo anche in Italia; l’Università “L’Orientale” di Napoli ha collaborato con l’IISF di Napoli alla realizzazione di questo seminario, che affronta è un tema poco studiato; ancora oggi, infatti, le uniche cattedre di storia della filosofia orientale in Italia sono presenti esclusivamente a Napoli ed a Venezia.
Nei licei la tematica della filosofia orientale e indiana in particolare è appena accennata quando si parla dell’origine della filosofia in India intorno al XIV secolo a. C., una filosofia “mista” sicuramente con tradizioni magico-esoteriche e religiose presenti nei Veda, o Inni vedici e nelle Upanishshad, un complesso di preghiere (“Upanishad” letteralmente significa “stare seduti vicino al maestro”). Sempre a livello manualistico si afferma che dall’India la filosofia sarebbe trapassata in Persia tra VIII e VII secolo con Zarathustra o Zoroastro o Siddharta, al quale Hermann Hesse ha dedicato un saggio divenuto un classico e molto letto anche in Italia dai giovani negli anni ‘70, ma la filosofia indiana non termina la sua funzione prima della nascita di Cristo ed ha avuto ampio sviluppo in età classica e nel Medioevo. Le connotazioni religiose di questa filosofia sono indiscutibili: proprio in Persia la dottrina orientale acquista una dimensione dualistica nella lotta tra Mazda, la luce, il bene, ed Hariman, le tenebre, il male: tale dualismo ha avuto sicure influenze sulla cultura occidentale e greca, anche se la “vittoria” degli “occidentalisti” sugli “orientalisti” inerente al dibattito sulla genesi della filosofia, almeno in Europa, è indiscussa, per cui i Greci non sono assolutamente da considerarsi solo i ripetitori di una cultura precedente nata in Oriente e mista allo yoga ed a pratiche religiose. In ogni caso il dualismo ha avuto una certa influenza sul pensiero occidentale: si consideri gran parte della filosofia, non solo greco-pagana, ma anche cristiana e medievale. Si pensi, ad esempio, al contrasto tra la “selva oscura” e il “colle luminoso” nei primi versi del I° canto dell’Inferno dantesco. Parmenide, nel suo sogno che racconta in alcuni dei suoi 19 frammenti pervenutici, parla del carro accompagnato dalle Eliadi, le figlie del Sole, simbolo del Bene e della Luce, che lo seguono in questa corsa che lascia alle spalle le tenebre per marciare verso la luce, ma il dualismo ricorre anche in Pitagora, nella sua teoria numerologica, in cui i numeri pari, “femminili” e “sinistri”, sono identificati con le tenebre, mentre quelli dispari, “maschili”, con la luce. Mazda, la luce, in persiano è anche attualmente il nome di un’automobile, appunto la Mazda, costruita in Oriente, nel probabile significato positivo di “veloce come la luce”. Eraclito, pensatore dialettico ben lontano da Parmenide, riprende il dualismo tra “desti “, ovvero i filosofi, e i “dormienti”, gli uomini comuni. In Platone ed in Plotino (in quest’ultimo soprattutto, come nel divario tra molteplice ed Uno) le suggestione orientali sono molto presenti, come si evince dalle Enneadi I e II; il dualismo acquista una dimensione più umana e razionale, ma sempre importante, nel divario tra mondo terreno ed Iperuranio in Platone. Nella metafisica cristiana di Agostino troviamo il dualismo, così come nella sua filosofia della storia espressa nel De civitate Dei (che è infatti più un’opera di teologia della storia) nel divario tra la “città terrena”, rappresentata da Caino e dal peccato originale, e la “città di Dio”, identificata con Abele e la redenzione. In Tommaso tale dualismo è ancora più forte, ma lo troviamo anche nel tardo Rinascimento con Giordano Bruno nel De umbris idearum, in cui si afferma che l’uomo può vivere sotto due ombre, quella della filosofia o quella dell’ignoranza. Nella filosofia orientale e indiana in particolare tuttavia la responsabilità umana è fortemente ridimensionata a favore di una visione mistica, trascendente, metafisica della vita e nello stesso processo pedagogico il maestro è “colui che sa”, come Zarathustra, e sapendo, “parla” (Zarathustra on persiano antico significa infatti “Colui che parla”), mentre il discente deve tacere, ascoltare ed obbedire al maestro. Manca, in questo senso, quell’approccio dialettico che caratterizza invece la cultura greca. Non a caso la filosofia indiana ed orientale si afferma politicamente in società “vegetanti” ed in imperi dispotici, mentre la filosofia greca nelle aperte e fiorenti colonie dell’Asia Minore tra VII e VI secolo a.C., per penetrare poi in Atene, “Alta scuola della cultura greca”, patria della democrazia realizzata nelle poleis, come dimostra, nel V secolo, durante l’età periclea e come testimonia Tucidide nella Storia delle guerre del Peloponneso. Questo aspetto dogmatico e vegetante del pensiero orientale si ritrova nel carattere autoritario della scuola pitagorica: Pitagora di Samo, “Ipse Dixit”, è il maestro che sa tutto, è venerato dai suoi discepoli come una divinità e gli fu addirittura attribuita la capacità di compiere miracoli. Arrivò addirittura ad imporre ai suoi discepoli divieti alimentari ed anche nella vita sessuale. La scuola pitagorica sembra quindi tradire il carattere della filosofia come ricerca sempre aperta, che è invece il tratto fondamentale del pensiero greco e di Socrate e Platone in particolare. In Oriente, a situazioni politiche di assoluto dispotismo corrisponde quindi un’educazione vegetante, fondata sull’iniziazione del discepolo da parte del maestro.
Il relatore, nel suo studio (cfr. V. Eltschinger – I. Ratié, Che cos’è la filosofia indiana?) indaga anche la filosofia babilonese ed i suoi influssi da Epicuro alla fine del XVIII secolo riguardo alle categorie di “mondo” e “coscienza”, “percezione” e “verità”, “razionalità” e “religione”: lo stesso Buddismo, che tanto successo ha avuto anche tra i giovani degli anni 70 proprio per il suo carattere laico, introspettivo, poco “religioso”, è una filosofia, così come sono filosofiche le pratiche degli Hare Krishna.
Impossibile comunque avvicinarsi alla filosofia indiana senza una buona conoscenza del sanscrito.
L’influenza, come abbiamo visto, del pensiero indiano dai Veda (gli Inni Vedici erano inni di preghiere) principalmente, ma anche dalle Upanishad ci spinge in conclusione ad abbandonare, almeno in parte, l’idea di una radicale opposizione tra filosofia indiana intesa esclusivamente come religione e filosofia occidentale considerata esclusivamente come speculazione razionale: lo stesso Platone era iniziato ai misteri eleusini ed i miti derivati dalle tradizioni orientali sono fortemente presenti nei suoi dialoghi, come il Simposio o Convito, in cui il filosofo riprende gli antichi miti babilonesi circa il Dio Sin, identificato con la luna (ed è sia maschio che femmina), il Sole, che è maschio,”positivo”, e la Terra, che è femmina, quindi peccatrice.
Nella filosofia indiana sono presenti anche, conclude il relatore, una logica ed una politica che al tempo erano talmente importanti come sono diventate, per il pensiero europeo ed occidentale, rispettivamente quelle di Aristotele e di Machiavelli nonostante gli occidentalisti abbiano accusato il pensiero orientale di “fanatismo”.

Che cos’è la filosofia indiana? On a forthcoming introduction to Indian philosophyultima modifica: 2023-11-10T17:37:06+01:00da m_200
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