Orizzonti della storia della filosofia

SCUOLA NORMALE SUPERIORE, PISA – ACCADEMIA NAZIONALE DEI LINCEI, ROMA – UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FIRENZE
A. A. 2016/17 – CORSO DI FORMAZIONE ED AGGIORNAMENTO IN
STORIA DELLA FILOSOFIA: ORIZZONTI DELLA FILOSOFIA
COORDINATORE DEL CORSO: Michele Ciliberto, Scuola Normale Superiore.
DESTINATARI: docenti di scuola secondaria di secondo grado.
FINALITÀ, OBIETTIVI E METODOLOGIA DEL LAVORO: il corso si articolerà in quattro appuntamenti a cadenza mensile, ciascuno della durata di due ore: la prima ora avrà carattere di lezione frontale mentre la seconda sarà destinata alla discussione e al confronto con i partecipanti. Le lezioni si concentreranno su temi specifici della storia della filosofia, offrendo al contempo percorsi e prospettive di indagine originali che potranno essere di spunto e utilità per i docenti partecipanti ai corsi.
PROGRAMMA:
• Incontro 1 – Filosofia islamica nella Divina Commedia? Sull’influenza di Averroè in Dante, giovedì 9 febbraio 2017, ore 15.30–17.30, Sala Azzurra, Amos Bertolacci, professore associato di storia della filosofia medievale, Scuola Normale Superiore.
• Incontro 2 – Il processo di Giordano Bruno, martedì 14 marzo 2017, ore 15.30-17.30, Sala Azzurra, Michele Ciliberto, professore ordinario di storia della filosofia del Rinascimento, Scuola Normale Superiore.
• Incontro 3 – Heidegger e la filosofia tedesca del primo Novecento, martedì 11 aprile 2017, ore 15.30-17.30, Sala Azzurra, Stefano Poggi, professore ordinario in pensione di storia della filosofia, Università degli Studi di Firenze.
• Incontro 4 – Montaigne o la coscienza critica del Rinascimento, mercoledì 3 maggio 2017, ore 15.30-17.30, Sala Azzurra, Nicola Panichi, professore ordinario di storia della filosofia, Scuola Normale Superiore di Pisa.
SEDE: Scuola Normale Superiore – Piazza dei Cavalieri 7, Pisa.
COMPETENZE ATTESE: i docenti potranno imparare a confrontarsi in modo originale con i temi portanti della storia della filosofia ed a mettere in luce – nei moduli didattici che elaboreranno – nuove chiavi di lettura e nuovi percorsi tematici da proporre ai propri studenti. CONTATTI: eventiculturali@sns.it Dott.ssa Elisa Guidi, tel. 050/509307. Iscritto: mer. 07/12/2016.
MODALITÀ DI ISCRIZIONE: la partecipazione è gratuita. Le iscrizioni potranno avvenire compilando un form on line disponibile sul sito della Scuola Normale Superiore alla pagina www.sns.it/scuola/attivitaculturali/lincei entro il 28 gennaio 2017 fino ad esaurimento dei posti disponibili (massimo 120). Le iscrizioni saranno accolte in base all’ordine di arrivo.
ATTESTATO: al termine del corso ai partecipanti verrà rilasciato un attestato di frequenza.
1.Filosofia islamica nella Divina Commedia? Sull’influenza di Averroè in Dante.
Circa il rapporto di Dante con l’Islam possiamo distinguere 3 ambiti: 1)le fonti letterarie; 2)l’atteggiamento negativo di Dante verso la religione musulmana, in linea con la tradizione medievale; 3)l’atteggiamento di Dante di apertura nei confronti della cultura araba.
Le fonti letterarie islamiche costituiscono un vero e proprio “mare magnum”; se invece consideriamo il solo rapporto di Dante con l’Islam, il materiale bibliografico è molto scarso; in terzo luogo, l’atteggiamento di Dante nei riguardi di Averroè è “incerto”.
“Averroismo” è l’etichetta con la quale è stato definito l’atteggiamento di Dante verso la cultura islamica: è bene subito precisare che Averroè fu un fautore dell’unicità della verità, a differenza degli averroisti, per i quali valeva una “doppia verità”. Dante parla di Averroè collocandolo tra gli “spiriti magni” del limbo nell’Inferno (IV) e nel Paradiso (IV, XXVI): qui il poeta non cita esplicitamente il filosofo arabo, ma sostiene tesi averroiste.
Per quanto concerne le fonti, è necessario tener presente l’escatologia musulmana riscontrabile nel Corano: si legge che il poeta Mohammad sia stato rapito da Dio e portato a Gerusalemme e si afferma che il profeta abbia visto Dio nell’”orizzonte”, in cielo, quindi che abbia avuto un contatto con Dio. Maometto sarebbe stato svegliato dall’arcangelo Gabriele a La Mecca e su un destriero avrebbe attraversato gli 8 cieli e sarebbe stato ricevuto da Dio, che gli avrebbe donato il Corano. A differenza de La Divina Commedia, prima avrebbe attraversato il Paradiso e poi l’Inferno e non si parla affatto di Purgatorio. Sull’influenza di quanto affermato nel Libro della Scala di Maometto si sono pronunciati vari studiosi, tra i quali Palacios nel 1943 ed Enrico Cerulli nel 1949, che conferma gli studi di Palacios, sostenendo che Dante avrebbe letto il Corano. Il noto medievista Bruno Nardi mette invece in dubbio questo nesso.
Maometto e suo genero Ali sono stati condannati dal poeta fiorentino come scismatici e collocati nell’Inferno (XXVIII, 22-63) e per questo, in base alla legge del contrappasso, vengono squartati: Dante respinge quindi la religione islamica, sia sul piano sunnita (condannando Maometto) che sciita (con la condanna di Ali).
Richard Lenay, in un suo studio del 1987, ha insistito sull’anti-islamismo di Dante, ma su questo punto, come si è detto, la storiografia è povera; Leonardo Capezzone sostiene addirittura il silenzio di Dante verso l’Islam, tesi difficilmente difendibile.
L’averroismo latino, detto anche “aristotelismo radicale”, propugna la fedeltà pedissequa alla filosofia aristotelica, molto studiata tra X° e XIII° secolo. Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia furono questi studiosi, erano dei filosofi, “magister artium”, ossia professori, non erano dei teologi, a differenza di Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. Sigieri di Brabante sarà elogiato da Dante nel Paradiso: per questo Dante sarà, molto discutibilmente, come abbiamo detto e come vedremo ancora, considerato un averroista.
Possiamo sintetizzare nelle seguenti tre le tesi degli averroisti:
1)l’eternità del mondo, che non quindi tempo.
2)La separazione dell’intelletto attivo o agente da quello passivo o potenziale: è questo un punto no chiarito dallo stesso Aristotele, che nel De anima (III, 4-5) si limita a dire che l’intelletto agente è “separato” o “separabile” (in quanto il verbo greco si può tradurre in entrambi modi), ma non dice da cosa. Per Averroè è separato dall’anima umana ed è unico per tutto il genere umano, ma Dante, ne La Divina Commedia, respinge questa tesi.
3)La felicità intellettuale: la conoscenza, per Aristotele, conduce alla felicità intellettuale, nel senso che più si conosce, più si è felici, sostiene lo stagirita nell’ultima parte dell’Etica nicomachea. E’, questa, una tesi ripresa da Averroè.
Gli averroisti riprendono questo assunto per elaborare la cosiddetta “dottrina della doppia verità” e sostengono che, fatta salva la verità teologica, esistono poi due verità, una intellettuale ed una per il volgo.
Le tesi averroiste saranno condannate dal vescovo di Parigi nel 1277, condanna “sollecitata” dai teologi di Parigi, che non potevano tollerare l’averroismo accademico nella stessa città. Nel Paradiso (X, 133-38) Dante elogia Sigieri ed è per questo, come si è, detto, che viene definito, impropriamente, “averroista”; infatti nel Purgatorio (XXV, 61-6), il sommo poeta fiorentino respinge la separazione dell’intelletto agente dall’anima, in accordo con Tommaso d’Aquino, che aveva collocato l’intelletto attivo aristotelico nell’anima per dimostrane l’immortalità, e contro Averroè.
Bruno Nardi, Maria Corti ed il filosofo neotomista Gilson (Dante e la filosofia, 1939) rivendicano il “Dante averroista”, anzi, lo presentano come il massimo esponente dell’averroismo latino.; altri critici hanno definito invece il padre della lingua italiana come un “averroista sui generis”, che tuttavia riprende la dottrina della doppia verità. Averroè è citato due volte anche nel Convivio ed una volta nel De monarchia, ma questo non significa che Dante sia averroista.
In conclusione, è necessario quindi superare la tesi di un Dante averroista, anche se talvolta il poeta riprende Averroè, è quindi possibile trovare tracce di Averroè in Dante, ma prescindendo dall’averroismo; si consideri inoltre che le opere teologiche di Averroè nel Duecento non erano state ancora tradotte in latino e sono rimaste in arabo, quindi Dante non avrebbe potuto leggerle.
Anche sulla dottrina della doppia verità il dibattito è aperto: Averroè fu un intellettuale “a tutto tondo”, fu infatti medico, giurista, filosofo, teologo musulmano, uomo di corte vissuto a Cordoba, nella Spagna islamica, nel XII° secolo; a lui si deve l’ingresso del pensiero aristotelico in Spagna. Per la dottrina della doppia verità entrò in polemica con i teologi cristiani, ma soprattutto con quelli musulmani. Ha scritto moltissimo, anche di medicina e giurisprudenza, ma la sua principale opera, a carattere filosofico e teologico, è il Grande Commento, un commentario alle opere di Aristotele, principalmente alla Metafisica e al De anima (III, 4-5). Nell’incipit del commento alla Metafisica, ringrazia innanzitutto Aristotele, che a sua volta era stato grato ai suoi predecessori. Prosegue sostenendo che la legge (“sharia” è il termine arabo usato da Averroè) dei sapienti è la filosofia, che è “religione razionale”: non c’è alcuna visione della filosofia come “ancilla theologiae”, a differenza di quanto sosterrà il secolo successivo Tommaso. Filosofia e religione ricercano quindi un’unica verità, legge filosofica e legge divina concordano ed ognuno, scrive testualmente il filosofo arabo, aderisce al proprio grado di verità in base al proprio livello. Esistono quindi due diversi livelli di verità, non due verità distinte, perché la verità è sempre una sola: di questi due livelli uno è per i dotti, ed è la filosofia, che utilizza la ragione, l’altro è per il volgo, ed è la teologia, che si serve della fede. Averroè tenta quindi di “razionalizzare” l’Islam, e per questo dovrà acremente polemizzare con i teologi musulmani. Per l’interprete di Aristotele è possibile avere un dialogo tra monoteismi, ma solo sul piano più alto della filosofia: questo è un aspetto di Averroè fatto proprio da Dante.
Ne La Divina Commedia, Dante salva Saladino e altri due musulmani: su 5 musulmani citati, 3 sono salvati e 2 (Maometto e Ali) condannati all’Inferno, quindi la maggioranza è salvata. Dante concilia tutti i filosofi nella “filosofica famiglia”, in cui riunisce Socrate, Platone, Democrito, Anassagora, Talete, gli stoici, Aristotele, che resta comunque il suo prediletto, definito “maestro di color che sanno”. Dante concepisce la filosofia come la concepivano i medievali suoi contemporanei: compresenza di matematica e religione. Nel Paradiso, per bocca dell’evangelista Giovanni, e nel Purgatorio, per bocca di Beatrice, concorda con Averroè. Si consideri ancora che alcuni passi del commento di Averroè alla Metafisica di Aristotele, come questo sulla doppia verità, non sono stati tradotti in latino e sono rimasti in arabo originale: data l’elevatezza dell’argomento, il traduttore ha constatato l’impossibilità renderli con una versione.
Il substrato storico di questo contesto filosofico è, da un lato, quello delle crociate e dei conflitti religiosi, dall’altro quello del dialogo interculturale ed interreligioso delineatosi nel Medioevo colto e valido ancora oggi, per auspicare, in nome di un restaurato “abramismo”, in quanto tutti, cristiani, ebrei, musulmani, discendiamo da Abramo, una nuova “filosofica famiglia”, lontana da qualsiasi fanatismo e violenza.
2.Il processo di Giordano Bruno.
Il tema dei processi a Bruno si può affrontare soltanto facendo riferimento a Giordano Bruno. Fiumi d’inchiostro sono stati versati su questo argomento: a nell’Ottocento uno studioso inglese ha affermato che Bruno non sarebbe andato al rogo, ma mandato in un convento, in penitenza. I documenti del processo ritrovati nell’archivio di San Giovanni Decollato hanno invece dimostrato il contrario.
Quando da Venezia Bruno viene trasferito a Roma è il 1592: Bruno rimane in carcere 8 anni. Lo stesso papa Clemente VIII ed il cardinale Bellarmino non volevano mandarlo al rogo, è Bruno stesso che vuole morire e trasforma la sua morte in un evento teatrale. La Chiesa ufficiale ha invece fatto di tutto per salvare Bruno, avrebbe infatti preferito l’abiura, che avrebbe significato la sconfitta di Bruno e la vittoria della Chiesa. Bruno è un uomo solo, ma non isolato: è un intellettuale famoso in tutta Europa. Keplero s’interrogò, senza risposta, sul motivo per cui Bruno non abbia abiurato, sia pur mentendo, visto che non credeva in un Dio che dispensa premi e punizioni. Il giovane Bruno è profondamente cristiano, un cristianesimo però di derivazione ariana ed erasmiana (le opere di Erasmo erano già state messe all’Indice), mentre il Bruno maturo è l’autore più anticristiano di tutto il ‘500. Galileo sarà debitore a Bruno dell’intuizione dell’infinità dell’universo. Bruno era convinto di avere già vissuto molte vite, credeva infatti nella metempsicosi universale tra tutti gli esseri viventi e di essere un messaggero inviato dagli Dei, era convinto di avere avuto un dono eccezionale.
In ogni luogo d’Europa ove va peregrinando si auto-elogia per avere una cattedra universitaria e cerca di fare apparire i più dotti teologi come delle figure mediocri, come fa a Ginevra; è pronto a simulare e a dissimulare, a qualsiasi finto pentimento, pur di raggiungere i suoi scopi, come dimostra al processo veneziano.
Prima di Montaigne, difende gli indios, sostenendo che questi hanno dei memoriali più antichi di quelli ebraico-cristiani, mettendo così in crisi la tradizione biblica; è scomunicato dai cattolici, dai calvinisti, dagli anglicani e dai luterani, fu sottoposto alla tortura della ruota almeno due volte. Luteranesimo e calvinismo, per Bruno, sono ancora peggiori del cattolicesimo, in quanto, per i protestanti, era addirittura impossibile dialogare con Dio, a differenza del cattolicesimo.
Fino al settembre 1599 Bruno non è ancora considerato un colpevole: Clemente VIII, ex cardinale Ippolito Aldobrandini, conosce il caso Bruno fin dal 1591 e si adopera affinché venisse trasferito da Venezia a Roma. Bruno è un esperto di diritto canonico e di retorica ed è in grado di difendersi senza avvocato, ma il papa Clemente VIII, che pure vuole salvarlo, gli impone la pubblica abiura su 8 punti dei suoi scritti come unica possibilità di salvezza, punti che Bruno aveva già abiurato a Venezia, ma non pubblicamente. Ma Bruno rifiuta l’abiura pubblica, è un personaggio furioso ed orgoglioso fino alla superbia.
Nel 1604, ad Oxford, il futuro arcivescovo di Canterbury afferma che Bruno ha lasciato dietro di sé una scia di rabbia e la stessa Elisabetta d’Inghilterra definì Lo spaccio della bestia trionfante “un libro blasfemo”. Bruno aveva fiducia in Clemente VIII, che aveva definito il papa “amico dei filosofi”, in quanto il papa era stato compagno di studi ed era amico di Francesco Patrizi da Siena. Bruno, in carcere a Roma, invierà 2 memoriali al papa, ma il pontefice leggerà solo il primo e si rifiuterà di leggere il secondo.
Bruno è anche convinto di essere “un buon e grande mago”, nel senso di filosofo della natura, ed anche un politico, un “capo popolo”: la politica bruniana si deduce dalla concezione magica, in quanto la magia naturale, buona, “bianca” può essere la chiave di volta della politica. Bruno rifiuta la pubblica abiura e sceglie la morte, volgendo lo sguardo dal crocifisso che gli fu mostrato sul luogo del suo supplizio, perché preferisce morire che abiurare, in quanto l’abiura pubblica avrebbe comportato una totale mancanza di divulgazione delle sue opere.
L’ultimo Bruno è impegnato nelle opere magiche, che scrive in carcere a Roma, opere che grandi studiosi come Felice Tocco ed il filosofo hegeliano neo-idealista Giovanni Gentile avevano erroneamente ritenuto mere superstizioni.
Bruno è un uomo che ama la vita, anche se con rabbia e risentimento, ama le donne.
Prima di essere portato in Campo de’ Fiori per il rogo, Bruno bestemmia il nome di Cristo e per questo gli fu messa la lingua “in giova”, cioè gli fu inchiodata nella mordacchia, si considerava il fondatore di una nuova religione, anti-cristiana, perché il cristianesimo è la religione della corruzione, a causa di Paolo, Agostino e Lutero, che definisce “tre impostori”. Affermò di voler morire “martire e volentieri”, a differenza di Cristo, che sul Golgota non era stato nemmeno capace di morire ed ha chiesto l’aiuto del Padre, lamentandosi di essere stato “abbandonato”: Cristo è stato quindi per Bruno un “cattivo mago” ed un “uomo misero”, critica Mosè, che ha dato una “legge sanguinaria”. Al processo, da vittima Bruno si trasforma in giudice e martire al tempo stesso, trasforma la sua morte sul rogo come un evento teatrale, davanti ad una folla ammutolita, aveva affermato che la sua anima sarebbe “ascesa al Paradiso con quel fumo”.
Di Cristo, il Bruno maturo respinge radicalmente la creazione in nome di una materia auto-creatrice dotata di un’energia potentissima ed infinita, capace di creare infiniti mondi.
Bruno rappresenta il maggiore esempio di migrazione intellettuale del Rinascimento.
Sarà ripreso da Montaigne e Spinoza, criticato da Mersenne, temuto da Cartesio, ignorato da Galileo, che pure utilizzandolo ampiamente, non lo cita mai. Sarà ampiamente letto nel ‘600 e nel ‘700, anche da Leibniz e da Spinoza (sarà definito anche “un piccolo Spinoza”, ma Bruno va invece riscoperto nei suoi testi, in quanto, come affermava Garin, “Il passato è un altro presente), ma “ripulito” dagli aspetti magici e dalla mnemotecnica lullista: anche Machiavelli e Guicciardini subiranno la medesima operazione di “ripulitura” di Bruno. Bruno e Spinoza hanno subito comunque due analoghe sentenze, sul piano formale, Bruno nel processo del gennaio 1600, Spinoza nella maledizione della comunità ebraica di Amsterdam nel 1656. Non mancano, in ogni caso, contraddizioni nei testi di Bruno, come sull’eternità dei mondi, talvolta affermata e talvolta negata. Bruno pensa all’esistenza di altri mondi, anch’essi abitati, da uomini migliori di quelli che stanno sulla terra.
Bruno è stato anche un filosofo politico, malgrado questo sia negato da Gentile, la cui interpretazione non è oggi accettabile: Bruno legge infatti i capp. XI e XII de Il Principe, in cui si afferma che una società “sine religio” non ha fondamento. Bruno ribalta questa affermazione sostenendo che proprio l’uscita dalla religione è il fondamento della “civitas” e per questo è necessario fondare una religione civile “piuttosto” che “metafisica”.
Si è detto che il giovane Bruno è cristiano, di tradizione ariana ed erasmiana, ma nella commedia Il candelaio beffeggia già il cristianesimo, sia pure in forma scherzosa, ma le opere più anti-cristiane di Bruno sono successive e sono Lo spaccio della bestia trionfante e La cabala del cavallo pegaseo: la “bestia trionfante” è costituita dai vizi, che sono in cielo, in cui Cristo, rappresentato dal centauro Chirone, “fa la pipì dal cielo” sul mondo.
3.Heidegger e la filosofia tedesca del primo Novecento.
Martin Heidegger è un filosofo “fortemente tedesco”: non si può studiare Heidegger prescindendo dalla filosofia del mondo germanico, da Kant ad Hegel, da Marx a Nietzsche. Gli anni della formazione di Heidegger sono compresi tra la sua attività di studente universitario ed il 1923: in questo senso acquistano valore la sua tesi di laurea e quella di dottorato. La cultura filosofica tedesca è prettamente accademica, universitaria: i filosofi tedeschi, da Kant ad Hegel, sono infatti tutti professori universitari. In questo contesto è predominante il neokantismo di fine Ottocento. Altro punto di riferimento, per la formazione del giovane Heidegger, è quello delle scienze naturali, tardo-positivistiche ed empiriocriticiste: grande impulso, a fine Ottocento, hanno infatti la medicina e la psicologia scientifica, ma lo stesso Karl Marx è uno di questi punti di riferimento, per il valore ontologico che attribuisce alla base economica delle società. Tale contesto culturale è invece misconosciuto in Austria. Nel 1913 molti professori di filosofia firmano un manifesto in cui chiedono che le cattedre di filosofia non vengano assegnate agli psicologi: tra i firmatari vi è anche Edmund Husserl, che nel 1910 aveva redatto un manifesto sul rigore scientifico della filosofia. Il giovane Heidegger riceve una formazione molto tradizionale, studia in un seminario per preti cattolici, si applica all’ontologia ed alla metafisica, entrando in forte polemica con il filosofo della scienza Ernst Cassirer; si confronta con Brentano, che ha avuto fortuna nella cultura austriaca, e con la sua scuola. Tuttavia nega una borsa di studio ad un suo brillante studente, il sacerdote cattolico Friedrich Max Müller, che diventerà, in seguito, uno dei più forti sostenitori del pensiero heideggeriano. In Essere e tempo (Sein und Zeit), parlando dell’essere (Da-sein, ovvero “esser-ci”, essere nel mondo come un “progetto”), studia le categorie aristoteliche. Ad Heidegger interessa il confronto con Brentano perché Brentano ha avuto influenza sulle Ricerche logiche e sulla fenomenologia husserliana: Husserl aveva infatti scritto di aver studiato Aristotele tramite Brentano. E’ il 1900: seguono gli anni dell’anti-psicologismo di Heidegger, sulla scia di Husserl e del suo pensiero matematicizzante, che si scaglia soprattutto contro la Gestalt (psicologia della forma). Le leggi logiche, per Husserl, hanno un carattere a-temporale, come quelle matematiche, ma si adoperano poi nella realtà di tutti i giorni e nella concretezza specifica quotidiana: è questa l’intenzionalità, ovvero il momento in cui il pensiero si dirige verso un oggetto per afferrarlo; per questo è necessario adeguare la logica alla realtà, adeguamento che Husserl definisce riduzione eidetica. L’intenzionalità si realizza “riempiendo” le categorie vuote ed astratte della logica: è il problema del Bewussein, cioè della coscienza intellettuale e puramente speculativa, e non del Gewissen, ovvero della coscienza morale. Questo porterà Husserl a confrontarsi con il Kant della Critica della ragion pura (cfr. “Estetica trascendentale” ed “Analitica trascendentale”) e con le figure della Fenomenologia dello Spirito di Hegel. Tutte queste tematiche influenzano il giovane Heidegger fino al 1923. Heidegger riprende da Husserl la categoria di “intenzionalità” e la concepisce come chiave di accesso per comprendere il legame umano con il relativismo e la temporalità.
Ultimo problema del giovane Heidegger è quello religioso, con il quale il filosofo si confronta da una posizione non religiosa: studia il tomismo, il cattolicesimo, il protestantesimo, legge il libro di Von Otto Sul sacro, che esce nel 1917, e ne rimarrà fortemente condizionato. Nel 1917 si pubblicano anche Principio speranza del cattolico marxista Ernst Bloch ed alcuni scritti di György Lukács. In Essere e tempo Heidegger cita esplicitamente passi del Sofista di Platone e della Fenomenologia dello spirito di Hegel, relativamente al problema della “nagazione” per affermare: è questo l’ Aufhebung hegeliano della Fenomenologia dello Spirito, ovvero la “negazione determinata”.
Il problema della negazione apre le porte al tema dell’alienazione e del nulla, del nihil: di fronte al nulla ci può essere spazio per il sacro, come sostiene lo storico delle religioni Mircea Eliade ne Il sacro ed il profano (ed. Boringhieri, Torino). Per questo il pensatore tedesco predilige il Nuovo Testamento ed in particolare l’Epistolario paolino (soprattutto le lettere ai Romani ed ai Tessalonicesi, la prima un vero e proprio trattato di teologia) all’Antico Testamento: è il tema dell’angoscia, dello Jetz, dell’ora, dell’attesa, della presenza, ovvero della parusia (παρουσία). L’uomo è comunque sempre legato al tempo, per Heidegger, ed è questo il punto di fondo della mistica speculativa radicale, come quella di Giovanni Della Croce, Teresa d’Avila, Meister Eckhart (si considerino i suoi Trattati e prediche sul tema del “distacco”), Kierkegaard e del “flusso di coscienza” di James, come quello di Joyce e di Bergson. Sono idee che fanno di Heidegger un vero e proprio ponte con l’Esistenzialismo tedesco di Karl Jaspers, con il quale Heidegger si confronta: è il problema dell’uomo “scaraventato”, “gettato” nel mondo, di cui ci parla anche Sartre. Tali tesi heideggeriane avranno influenza anche sul buddismo zen nipponico: il Giappone si faranno infatti ben 13 traduzioni delle opere del pensatore tedesco. Paolo resta comunque un autore centrale per studiare il rapporto di Heidegger con la tradizione ebraico-cristiana: d’altronde Heidegger ha avuto molti allievo ebrei, tra cui, celeberrima, la filosofa politica Hannah Arendt. Anche Hans Jonas, il pilastro dell’etica della responsabilità, è stato un altro noto allievo di Heidegger. Karl Barth, Rudolf Bultmann e Raner sono altri autori fondamentali per comprendere il rapporto di Heidegger con la cultura cattolica e protestante. Heidegger dichiarerà di essersi allontanato dalla fede con l’avvento della Grande Guerra. L’Esistenzialismo inteso come “Kierkegaard Renaissance” resta per Heidegger un punto di partenza, uno stimolo, come è stato Blaise Pascal nei suoi Pensieri.
Sempre discusso è stato, infine, il rapporto di Heidegger con il partito nazista, al quale aderisce: appartenne all’ala “sinistra” del partito, più vicino a Rom ed alle S.A. che non alle S.S. o alla Gestapo: aderì al nazismo, ma elogiò e fu amante della sua allieva Hannah Arendt, polemizzando con alcuni suoi colleghi nazisti. La sua interpretazione su Nietzsche, inoltre, libererà il filosofo dell’ Übermensch dalla tesi, dominante in quegli anni, di essere stato un anticipatore del nazionalsocialismo.
L’ultimo Heidegger riflette sull’età della tecnica e sul linguaggio come rifugio, “casa dell’essere”: il pensatore diventa filosofo della storia.
4.Montaigne o la coscienza critica del Rinascimento.
Grande filosofo dell’autunno del Rinascimento, Michel de Montaigne ne riassume, da un lato, l’aspetto più significativo, dall’altro è un autore che guarda “oltre” il suo secolo. L’unico testo filosofico è costituito dai 3 libri dei Saggi; scrisse inoltre il resoconto di un suo viaggio in Italia e varie lettere, che furono pubblicate. La sua opera viene inizialmente pubblicata, in 2 libri, nel 1580, mentre l’ultima edizione è postuma, del 1595, in 3 libri, ed è pubblica da una sua allieva (edizione Abel Angelier). SI tratta di un progetto filosofico scritto in prima persona, come già fatto da Agostino e da Abelardo. Saggi significa “esperienze”, mediante le quali Montaigne critica la ragione umana. Nel 2° capitolo del III libro l’autore tratta di filosofia morale, con considerazioni storiche ed antropologiche e sottolinea l’importanza del dubbio, già evidenziata da Protagora in natura e da Socrate. La scepsi è quindi ripresa da Montaigne, ma quella socratica e protagorea, non quella del periodo ellenistico e romano. Per questo scetticismo Montaigne sarà letto da Kant, circa i limiti della conoscenza umana. Si può quindi affermare che Montaigne sia scettico nel senso di “pluralista”, ossia aperto al pensiero plurale, più che non nel senso di “relativista”. L’uomo è “un Dio terreno, mediatore tra cielo e terra”; in questo senso Montaigne si colloca al centro della speculazione rinascimentale, con il ritorno dell’uomo a sé stesso. Sul piano pedagogico (Saggi, libro II, cap. 26), per quanto concerne l’educazione del fanciullo, parla di “educazione permanente”, cioè che dura tutta la vita, anche se “la conoscenza dell’io sfugge all’uomo come la sabbia dal pugno della mano”: l’uomo deve quindi incessantemente tendere alla verità, sforzarsi di ricercare la verità. La conoscenza è quindi centripeta, verso sé stesso, e centrifuga, cioè non solipsistica, ma rivolta all’esterno. Montaigne critica fortemente le guerre civili e di religione del suo tempo, che hanno portato alla “morte pubblica”, e per questo rivaluta i selvaggi delle Americhe, recentemente scoperte (esercitando, con questo, influenza su Rousseau), fautori di un nuovo possibile umanesimo: non sono gli indigeni da civilizzare, ma gli occidentali.
Il saggio deve, in primo luogo, liberarsi dagli “idola” aristotelici, che hanno costruito un “mondo chiuso”: Montaigne insiste invece sulla necessità della dialettica e sull’importanza della contraddizione, contro le “certezze dogmatiche dell’intolleranza”: la certezza è infatti “idolatra”. Il pensiero di Montaigne tocca quindi molti temi della filosofia, dalla gnoseologia, all’etica, all’antropologia, alla cosmologia. La certezza è “un escremento del vecchio spirito”, indice di “vanità”, nemica infatti del dubbio. Queste considerazioni rilanciano il rapporto tra teologia e filosofia, che si occupano di campi distinti e devono essere reciprocamente indipendenti da qualsiasi ingerenza. Come era ricorrente per gli intellettuali nobili del tempo, anche Montaigne, nel 1580, compie un viaggio in Italia, culla dell’Umanesimo e del Rinascimento, visita Venezia, patria della tolleranza e degli eretici, anche se aristocratica (la città fu esaltata, ad esempio, da Jean Bodin), ma ne rimane, in parte, deluso. Poi si reca a Roma, ove subisce il sequestro dei suoi Saggi, che vengono censurati, ma l’opera era già stata pubblicata. Al filosofo viene comunque restituita l’opera, censurata, con la preghiera di correggerla una volta tornato in patria; deve, ad esempio, sostituire il termine “fortuna”, di machiavellica memoria, con quello di “provvidenza”, deve rivedere le sue considerazioni sugli animali, considerati intelligenti alla pari dell’uomo, per restituire dignità alla gerarchia tradizionale presente in natura, secondo lo schema discensivo Dio-uomo-natura. Tornato in Italia, l’autore non corresse nulla, anzi, aggiunse altre considerazioni in nome della laicità del pensiero e criticò i suoi censori, che sono teologi, e non filosofi. Queste tesi di Montaigne si ritrovano anche in Bruno, ma Montaigne è più “dissimulatore” di Bruno (la “dissimulazione” è la “simulazione onesta”, non la menzogna volta all’imbroglio). Montaigne resta quindi molto deluso dal suo viaggio in Italia, sul piano dell’apertura mentale, e definisce il Cinquecento “non un secolo d’oro, ma di ferro”. Montaigne concorda con Machiavelli sulla concezione della religione come “instrumentum regni”: nei secoli la religione è infatti stata uno strumento dei potenti per governare.
Da Epicuro riprende la concezione dell’amicizia, alla quale il filosofo francese inneggia (libro I, capitolo 28), sostenendo che la vera amicizia, quella disinteressata e non quindi quella opportunistica ed interessata, è sempre tra due sole persone, come aveva affermato Aristotele nell’Etica nicomachea (fra 3 persone l’amicizia era già impossibile, per lo stagirita); in Montaigne si ritrovano anche considerazioni, in proposito, di Epicuro (Massime capitali e Lettera a Meneceo, di argomento etico) più che di Cicerone, che nel De amicitia aveva invece parlato di amicizia “interessata”. Il filosofo è consapevole tuttavia che l’amicizia “pura ed unita” tra due persone è rarissima, anche se è auspicabile che tale amicizia tra due si possa “moltiplicare in una confraternita”. Tale amicizia “pura ed unita” tra due individui, per Montaigne, può essere, in chiave politica, la cellula ideale di una futura società. E’ strano in proposito notare, afferma Montaigne, come nelle corti europee uomini anziani prendano talvolta ordini da un bambino, vale a dire da un giovane monarca, cosa che non capita nelle sagge società dei “selvaggi”. Montaigne detesta e critica la povertà e la ricchezza (come aveva già fatto Aristotele sempre nell’Etica nicomachea), due estremi sconosciuti ai selvaggi: questo significa che la natura ci ha creati uguali, è l’ingiustizia di pochi che ha creato gli estremi, tesi ripresa in seguito da Rousseau. L’uguaglianza sociale è la base dell’amicizia: senza “uguaglianza non c’è amicizia” e per questo i monarchi non possono avere amici, non avendo nessuno pari a loro.
Dalla filosofia greca riprende la concezione circolare della storia.
Critica fortemente il “comportarsi come consuetudine”, il voler restare “minorenni”, tesi ripresa da Kant nel noto articolo “Che cos’è l’Illuminismo?”: “Sapere Aude” è infatti scritto, prima di Kant, da Montaigne, che s’ispira alle Lettere a Lucilio di Seneca.
Montaigne scrisse uno dei suoi Saggi sull’immaginazione, sostenendo che questa è talmente forte da rivestire quasi una dignità scientifica: è la forza dell’immaginazione, della psicosomatica, che ha causato, per il filosofo, le stimmate a Francesco d’ Assisi, non i miracoli, l’immaginazione è la magia bianca del Rinascimento, una sorta di pre-scienza, non è la magia nera, demoniaca, medievale, che Montaigne considera alla stregua dei miracoli. A riguardo il filosofo critica la pratica cinquecentesca della caccia alle streghe, in auge sia nel mondo cattolico che protestante, con la quale spesso venivano accusate di negromanzia, cioè magia, delle “povere vecchierelle rimaste sole”.
Critica inoltre la tortura e la pena di morte, anticipando le tesi di Cesare Beccaria: “Per mandare a morte chicchessia bisogna avere prove più chiare della luce di mezzogiorno, prove che la ragione umana non può avere”. In questo l’autore dei Saggi riprende, ancora una volta, lo scetticismo, e guarda “oltre”, come si è detto, il suo secolo.
Montaigne riflette inoltre sulla categoria di “mostruoso”, genericamente inteso come ”contro-natura” ed afferma che niente è “contro-natura” perché la natura conosce infinite forme, che la ragione umana non conosce. Gli occidentali che criticano i selvaggi indicandoli come “contro-natura” dimostrano soltanto la loro ottusità: il mostruoso, afferma Montaigne, è “un segno della possibilità”, che il buon principe dovrebbe intendere in chiave politica, come rigenerazione sociale per permettere la convivenza delle diversità, in primo luogo quelle religiose, che devono quindi convivere in pace, e non massacrarsi nelle guerre, come avveniva nel suo tempo. Da qui il nuovo compito della filosofia: essere “arte di vivere e formatrice del giudizio e dei costumi”, quindi della morale. Ecco perciò come ogni settore della filosofia tenda verso la morale: la teoretica ha un fine nella pratica. In materia politica Montaigne si dichiara infatti nemico di ogni tirannide: il potere dev’essere fondato sulla “servitù volontaria”, cioè sul consenso, non sull’usurpazione dei diritti e la violenza. L’uomo nasce libero, ma viene poi reso schiavo, sostiene il filosofo anticipando ancora una volta Rousseau: di fronte alla tirannia Montaigne invita non ad una rivoluzione violenta, ma alla disobbedienza, a togliere il consenso a chi viola i diritti, come affermerà Locke nel Settecento.
Montaigne guarda sempre più positivamente verso la diversità e l’alterità, rappresentate dai selvaggi come dagli ebrei come dai turchi come dagli animali; la ragione esaltata da Montaigne è sempre una “ragione critica”. La ragione va infatti curata, affinché non degeneri in presunzione ed arroganza: la ragione “zoppica”, e deve purgarsi da tutti gli idola”, afferma Montaigne sulla scorta di Plutarco, che lesse sia in greco che in traduzione. Pensare vuole infatti dire “pesare” le argomentazioni, e quindi confrontarsi ed incontrarsi con l’altro. Gli antichi, come Alessandro Magno, che Montaigne rivaluta ed apprezza, hanno imparato a fare questo, a comprendere la diversità, a differenza dei moderni, che si sono ritenuti a-criticamente superiori.
Infine è da sottolineare il contributo offerto da Montaigne alla storia della filosofia, che pone l’autore tra i filosofi che sono anche storici della filosofia, come Aristotele, che nel I° libro della Metafisica fa una storia della filosofia, e Diogene Laerzio.

Orizzonti della storia della filosofiaultima modifica: 2017-05-03T23:15:31+02:00da m_200
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