Discorso intorno alla felicità

Discorso intorno alla felicità.
“Felicità”, l’etimologia di questa parola è da ricondursi alla radice greca “φύω” (fyo),che avvalendosi di significati come “produco”, ”faccio essere”, ”genero”, ha dato origine a termini come “fecondo” e “feto” e, in secondo luogo, al latino ”felix” che analogamente significa “fecondo”, ”fertile” e più in senso lato “soddisfatto”, ”appagato”, “felice”. Sebbene sia un vocabolo di etimologia certa, legata a parole che presuppongono qualcosa di positivo e conosciuto da tutti, il suo significato non risulta essere universalmente così chiaro, anzi. Nel corso della storia la categoria di “felicità” si è evoluta ed è stata oggetto di molte teorie, filosofiche e non, dall’ambito mitologico di Erodoto, che individuava l’uomo più felice del mondo in Telbo, un ateniese morto coraggiosamente in battaglia, passando al concetto di piacere prima in Aristotele, poi quello duraturo e stabile, che caratterizzava la condizione di felicità epicurea (“catastematico”, ovvero “stabile”, affermava infatti Epicuro nella Lettera a Meneceo e nelle Massime capitali) a Seneca.
Per lo stagirita esistono 3 livelli gerarchici di felicità: il primo è chiamato “eudaimonia” (letteralmente, dal greco “eù” che significa “buono” e “daimon” che vuol dire “demone, diavolo”, εὐδαιμονία). E’ questo il livello più semplice di felicità ed è rivolto infatti non ai filosofi, agli intellettuali, ma alle persone semplici, da cui l’espressione, usata ancora oggi, di “buon diavolo”, per intendere appunto una persona che si accontenta di poco.
Il secondo livello, gerarchicamente superiore, è offerto dalle “virtù etiche”, che consistono nel “giusto mezzo nelle azioni”: ad esempio, scrive Aristotele nell’Etica Nicomachea, “il coraggio è il giusto mezzo tra la viltà e la temerarietà”. La felicità consiste quindi nell’equilibrio, nella “medietà”, dettata dall’anima razionale.
Il terzo e più alto livello di felicità è dato invece dalle “virtù dianoetiche” (“dianoetiche” da Diana, mitologica dea della caccia, per cui l’uomo che vuol essere sommamente felice deve farsi come Diana e divenire “cacciatore di sapienza”, cioè filosofo) ed in particolare dalla filosofia, dalla sapienza: solo i filosofi sono infatti massimamente felici, perché dotati di anima razionale. E’ in proposito interessante notare come per Aristotele gli animali non possano essere felici, perché privi di anima razionale, ma forniti soltanto di quella vegetativa e sensitiva, relative alle funzioni di nutrizione, riproduzione e sensibilità.
Per il filosofo di Samo la felicità è il fine della vita umana e l’unico strumento per conseguirla è la filosofia: felicità e piacere (in greco “edonè”, ἡδονή) per Epicuro s’identificano, ma non tutti i piaceri sono da ricercare, al fine di ottenere una vita felice. Il filosofo greco distingue infatti 3 tipi di piacere, quelli naturali necessari (come, ad esempio, il semplice nutrimento), quelli naturali non necessari (mangiar bene, scrive il filosofo) e quelli inutili (come sprecare il cibo). Il vero filosofo, il saggio epicureo deve ricercare soltanto i piaceri naturali necessari, perché solo questi sono “catastematici”, ovvero stabili, come si è detto, e consistono non in dissolutezze sfrenate, ma nell’equilibrio, nella prudenza, nel calcolo razionale delle gioie, “non in feste e banchetti”, scrive ancora Epicuro: già l’assenza di dolore è un piacere, per gli epicurei, assenza di dolore sia fisico (“aponìa” in greco, ἀπονία) che morale (ovvero “atarassìa”, ἀταραξία, cioè “imperturbabilità dell’anima”, serenità, equilibrio interiore).
Il filosofo stoico Seneca, nell’età tardo-antica, affermò che “la felicità è un bene vicinissimo, alla portata di tutti, basta fermarsi e raccoglierla”; un sentimento, quindi, quello individuato da Seneca, allo stesso tempo “instabile e incerto”, che comportava la critica a quanti non facessero uso della ragione per coglierlo. E’ proprio Seneca ad approfondire il tema della fratellanza umana e del ripiegamento interiore in sé stessi, pur senza arrivare a convertirsi al cristianesimo; tale concezione stoica penetrerà nel Medioevo cristiano, in Agostino come in Tommaso, per i quali la “felicità” era una sorta di ricompensa nell’aldilà per l’uomo virtuoso, possibilità che presumeva la necessaria postulazione dell’esistenza di Dio. Agostino addirittura condannava l’arte in sé stessa come semplice strumento di piacere disinteressato: il piacere doveva risolversi soltanto e sempre come una celebrazione della grandezza divina. E’ ancora da notare come Tommaso riprenda Aristotele sostenendo che agli animali è precluso il paradiso, in quanto sprovvisti di anima razionale e quindi impossibilitati a raggiungere la massima felicità.
È interessante inoltre analizzare come dal punto di vista filosofico e sociologico si siano susseguite poi teorie sul rapporto tra l’uomo e la società in cui si trova a trascorrere la sua esistenza e quindi il rapporto con la sua evoluzione nel tempo e gli influssi di essa sulla propria felicità.
Alla luce della visione pessimistica schopenhaueriana che individuava la felicità solo come una temporanea cessazione del dolore che caratterizza la nostra esistenza (medesimo concetto espresso da Leopardi, per il quale il piacere era soltanto una temporanea interruzione di dolore) e successivamente con le innovative teorie di Freud o della Scuola di Francoforte, si nota come parlando di felicità in una società definibile “moderna” siamo portati facilmente a trattare del sentimento opposto, quasi come un effetto collaterale, l’infelicità. L’espressione modernità “liquida” è una famosa metafora che Zygmunt Bauman ha usato per analizzare criticamente la società contemporanea, che altri studiosi (Lyotard, Giddens, eccetera) preferiscono chiamare “post-moderna” (tra questi anche il filosofo italiano, tuttora vivente, Gianni Vattimo, come si evince dal suo libro La società trasparente, 1989) o “tardo-moderna” o “complessità” (come il filosofo francese Edgar Morin, nato nel 1921 ed anch’egli ancora vivente). Tutto è permeato dalla “liquidità”, che è la caratteristica di base dei liquidi fluidi, che non possono mantenere una forma perché non hanno una coesione interna. Ne La società dell’incertezza Bauman riprende il “Disagio della civiltà” moderna di stampo Freudiano, mettendolo a confronto con il “disagio postmoderno” o “liquido” dei nostri tempi. Nel testo per primo citato Freud individua un disagio nella civiltà poiché l’individuo, in un contesto sociale e di fronte ad un orizzonte valoriale da rispettare, non è pienamente libero di esprimere le proprie pulsioni, i propri istinti, un “costo libidico” quindi, previsto nello stare in civiltà, la quale però garantisce allo stesso tempo una realtà controllata. Visione che sarà rielaborata per esempio anche da Marcuse. Spesso la società moderna di fronte al principio di “piacere” o quello di “realtà” ha scelto il secondo; il principio di realtà, in psicoanalisi, è infatti il principio dominante nella vita psichica dell’adulto, successivo e sostitutivo, nello sviluppo psichico dell’individuo, del ridotto principio di piacere, che domina invece la vita psichica del lattante. Il principio di realtà richiede l’accettazione di uno stato di tensione in cambio, in un prossimo futuro, di un piacere maggiore o di un dolore minore. Il principio di realtà e quello di piacere non sono da considerarsi antitetici, non agiscono in contrapposizione fra loro. Piuttosto il primo contribuisce a ridimensionare il secondo, costringendolo a tener conto di quelle che sono le condizioni reali di azione. Il principio di realtà non vieta al principio di piacere di esprimersi, ma lo riporta entro certi limiti di azione. Nell’ultimo Freud (successivamente alla pubblicazione di Al di là del principio di piacere, 1920) il principio di realtà è attribuito all’Io, la nostra struttura psichica, e scaturisce dalla contrapposizione tra l’Es, che consiste nel “calderone” degli istinti che rappresentano la riserva individuale di energia psichica distinguibili tra Eros e Thanatos, e la realtà esterna. Ai giorni nostri invece, come afferma Bauman, il principio di piacere e di libertà regna sovrano. Eppure, oggi come allora, viene a mancare la felicità che lascia il posto all’incertezza, alle insicurezze, alle ansie ,alle angosce e ad un diffuso senso di inadeguatezza. E allora si può così parlare di crisi dell’identità sociale e personale, caratterizzata dalla voglia di comunità della globalizzazione. La condizione umana nella modernità “liquida” è proprio questa : “nulla” è destinato a durare, e soprattutto a durare per sempre, men che meno i rapporti interpersonali, diventati sempre più effimeri; gli oggetti e le persone utili e indispensabili oggi sono i rifiuti di domani. Non può esistere un domani migliore! E’ questa la lezione che ci hanno offerto, a distanza di un secolo e da posizioni diverse, sia Kant che Nietzsche. Esiste solo un oggi o un istante diverso per gli scarti o rifiuti umani che siamo o stiamo per diventare, non esistono né provvidenza, né progresso storico, ma “un terno ritorno all’identico”, scrive Nietzsche in Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno. Ma prima di Nietzsche, già Kant aveva infatti sottolineato, quasi 200 anni fa, come il concetto di felicità fosse difficilmente spiegabile con questa famosa citazione “Nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo, ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo, in guisa che la sua libertà possa coesistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale” (Sopra il detto comune: ”questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica”). Di fronte all’estrema soggettività del significato di questa parola, Bauman, nella sua lezione tenuta presso Cagliari il 3 Giugno 2016 a “Leggendo Metropolitano” (festival internazionale di letteratura), ne raggruppa tutte le possibili definizioni sostanzialmente in due categorie:
1)La speranza di condurre una vita senza preoccupazioni, la pericolosa promessa della mentalità moderna, che attraverso il progresso mira ad offrire una condizione con sempre meno fastidi e disagi, ma che rischia di farci giungere ad un’esistenza pervasa dalla noia.
2)La seconda categoria viene individuata riprendendo una citazione di Goethe, che in vecchiaia aveva affermato di aver avuto una vita felice ma che allo stesso tempo non riusciva a ricordarsi di una singola settimana trascorsa felicemente. La visione quindi opposta alla prima, è come la felicità non sia la libertà dai problemi e dalle preoccupazioni, ma piuttosto scaturisca dal loro superamento.(Bauman pensava inoltre che Freud avesse ripreso da Goethe la tesi del sogno di felicità irrealizzabile nella realtà, che lo stato continuo di felicità fosse un incubo).
La società crea quindi possibilità di felicità o infelicità, ma allo stesso tempo Bauman individua due abilità per il raggiungimento della felicità, la virtù e la fortuna. In Art of life afferma l’esistenza di due fattori che delineano la vita dell’individuo, uno è la sorte, che abbiniamo alle cose di cui non abbiamo risposta, come per esempio essere nati in un Paese piuttosto che in un altro, una cosa che non dipende dalle nostre scelte. L’altro fattore è il carattere che, diversamente dal primo, può essere migliorato, è il fattore che prende le decisioni dal ventaglio di possibilità, diversificato dalla stessa sorte che ci troviamo ad avere davanti. Politicamente, facendo riferimento anche alla “Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America” del 4 luglio 1776, per esempio, ed al celeberrimo Diritto alla Felicità (categoria molto in auge nell’Illuminismo, come emerge anche dalle numerose dichiarazioni e costituzioni emanate durante la Rivoluzione francese), tutti avremmo il diritto di aspirare allo stesso grado di felicità, ma facciamo questo cercando di trovare esempi in altre persone che crediamo abbiano successo nella loro vita anche in base a ciò che possiedono, instaurando un processo continuo di confronto verso l’altro. La ricerca della felicità, di un fantomatico successo quindi, secondo una visione ripresa da Scheler, è caratterizzata da una delle più grandi paure dell’uomo, l’essere inadeguato per svolgere un certo compito, paura che porta con sé il possibile effetto collaterale prima citato dell’infelicità, dovuta alla convinzione che un altro uomo con le stesse nostre risorse riesca ad ottenere risultati migliori di quanto noi ne siamo capaci, una convinzione che si traduce in un colpo pesante per la nostra autostima. In questa logica, ogni volta saremo spinti a raggiungere un grado di felicità e di benessere maggiore, senza tuttavia comprendere come, secondo Bauman, la felicità non si trovi in fondo al percorso, bensì sia insita al percorso stesso, in itinere, una condizione di felicità temporanea sarà quindi un continuo tendere verso un grado ancora maggiore; questo processo si trova ad essere accentuato da Internet e dalle pubblicità che dicono di volerci rendere felici, ma che in realtà cercano solo di provocare la nostra insoddisfazione per creare un nuovo desiderio d’acquisto nella società consumista nella quale ci troviamo.
Introducendo il tema di Internet, Bauman parla di un’altra grande paura dell’uomo moderno, ovvero la solitudine. Sembrerà paradossale parlare di questo problema in una società globalizzata come quella attuale, in cui abbiamo a disposizione infiniti modi di comunicare, ma proprio questa abbondanza, e la presenza di social network che capitalizzano su questa paura e “promettono” una discutibile possibilità di non restare più soli, portano a quella che Bauman chiama “solitudine affollata”. Un ossimoro dunque che riesce a spiegare però bene il costante comunicare con gli altri ed il confronto virtuale verso di essi, che affolla quasi il nostro “io”, che non ci permette quasi più di avere un rapporto diretto con noi stessi. In una realtà virtuale subiamo un processo di alienazione dalla parte inevitabile e vera della nostra vita, ovvero quella “offline”, caratterizzata da elementi nei confronti dei quali l’uomo moderno si trova ad essere molto sensibile come l’amicizia o l’amore; basti pensare a piattaforme come Facebook, in cui si può massimizzare il numero di “amici” (in realtà spesso solo “contatti”), selezionandoli e scegliendoli grazie solamente ad un “clic”.
Alla domanda su che ruolo occupino i social network nella società contemporanea, in un’ intervista per il giornale spagnolo “El Paìs”,Bauman rispose:
“La questione dell’identità è stata trasformata in qualcosa a cui è stato dato un compito: è necessario creare la tua comunità. Ma non si crea una comunità, o ce l’hai o no; ciò che i social network possono creare è un sostituto. La differenza tra la comunità e la rete è che si appartiene alla comunità, ma la rete appartiene a voi. È possibile aggiungere amici e eliminarli, è possibile controllare le persone con cui siamo legati. La gente si sente un po’ meglio, perché la solitudine è la grande minaccia in questi tempi di individualizzazione. Tuttavia nella rete è così facile aggiungere o eliminare gli amici che non abbiamo bisogno di abilità sociali. Queste si sviluppano quando sei per strada, o sul posto di lavoro, e incontri persone con le quali devi avere un’interazione ragionevole. Devi affrontare le difficoltà di coinvolgerli in un dialogo. Papa Francesco, che è un grande uomo, ha dato la sua prima intervista a Eugenio Scalfari, un giornalista italiano che è un ateo auto-proclamato. È stato un segnale: il dialogo reale non è parlare con persone che la pensano come te. I social network non insegnano il dialogo, perché è così facile evitare le polemiche… Molte persone usano i social network non per unire e per ampliare i propri orizzonti, ma piuttosto, per bloccarli in quelle che chiamo zone di comfort, dove l’unico suono che sentono è l’eco della propria voce, dove tutto quello che vedono sono i riflessi del proprio volto. Le reti sono molto utili, danno servizi molto piacevoli, però sono una trappola”.
Una trappola per il nostro “essere individui”, reali, diretti, senza filtri, una trappola che rientra in una logica di comunicazione virtuale continua nella quale paradossalmente la peggior minaccia risulti appunto essere la solitudine e il non raggiungimento della felicità.
Dove comincia allora la felicità? Inizia a casa, attraverso il confrontarsi con problemi e discussioni reali ed il loro superamento, cercando di non smarrire quelle competenze sociali necessarie per la coabitazione con gli altri.

Discorso intorno alla felicitàultima modifica: 2017-07-23T15:09:53+02:00da m_200
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