LE INTERPRETAZIONI SUL FASCISMO

LE INTERPRETAZIONI SUL FASCISMO, a cura di Marco Martini.

Si possono attualmente distinguere le seguenti sei fondamentali interpretazioni storiografiche sul fascismo:1.fascista; 2.liberale; 3.socialista; 4.marxista o “terzinternazionalista”; 5.revisionista o “defeliciana”; 6.“bonapartista”.

L’unica interpretazione di parte fascista è quella di Gioacchino Volpe[1], in cui si afferma che il fascismo, anche se fu erede del Risorgimento, ad esempio per quanto riguarda il concetto di “amor di patria”, lo superò nella concezione dello Stato: lo Stato liberale risorgimentale è debole e diviso, mentre quello fascista è unito e forte. Lo Stato fascista sarebbe quindi un perfezionamento di quello risorgimentale.

Tutte le altre critiche al fascismo sono invece di parte antifascista, sia pure con diverse sfaccettature. L’interpretazione liberale, con Benedetto Croce[2] , Piero Gobetti [3] e Federico Chabod, definì il fascismo come una “malattia delle coscienze”, non erede del Risorgimento, ma del fallimento del Risorgimento; il regime fascista non era infatti riuscito a costruire uno Stato che fosse liberale e forte al tempo stesso. Secondo questa interpretazione liberale, il fascismo s’accattivò la fiducia delle masse difendendo il capitale e pretendendo di socializzarlo: il fascismo si mosse quindi all’insegna di profonde contraddizioni interne. In modo particolare secondo Gobetti il fascismo approfittò di una serie di difetti presenti nella società italiana, come il trasformismo e la pretesa industrializzazione da parte dello Stato.

L’interpretazione socialista di Gaetano Salvemini, lo storico meridionalista che aveva definito Giolitti come “ministro della malavita”, responsabile del malgoverno dell’Italia meridionale, vide invece la causa essenziale dell’avvento al potere del fascismo proprio nel malgoverno di Giolitti; come seconda causa, riscontrò alcuni errori dei socialisti massimalisti, come quello di non essere stati in grado di recepire le esigenze dei giovani reduci di guerra e di indirizzarli a sinistra e quello di avere “sbandierato a parole” una rivoluzione proletaria mai messa in pratica, con il solo risultato di avere spaventato la borghesia borghese di estrazione liberale, portandola verso quella destra dalla quale è nato appunto il fascismo.

L’interpretazione marxista o “terzinternazionalista” è sottoscritta da Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Angelo Tasca[4] e, in tempi più recenti, Enzo Santarelli[5]: la tesi marxista sul fascismo è direttamente collegata alla III Internazionale e quindi all’azione dei partiti comunisti in Europa. Il fascismo è un fenomeno di decadenza, segno di corruzione dello Stato borghese Il fascismo è segnato da profonde contraddizioni interne che inevitabilmente lo condurranno alla fine; ha trovato una temporanea salvezza solo in una politica estera  imperialistica ed in una politica interna totalitaria. Togliatti ha definito il P.N.F. “un partito reazionario di massa”. Il fascismo fu, in sostanza, per i comunisti, il tentativo di opporsi alla rivoluzione proletaria.

Queste quattro interpretazioni sono dominanti fino agli anni ’60, periodo in cui nascono le prime tendenze revisionistiche: l’interpretazione defeliciana viene a collocarsi appunto su questa linea. Renzo De Felice, autore di monumentali ed attendibili  biografie su Mussolini[6], definì il fascismo come “rivoluzione della piccola borghesia in ascesa”, come una possibile “terza via” da intraprendere per la conquista del potere, alternativa a quella liberale ed a quella marxista. De Felice vide il fascismo come “l’espressione dei ceti medi in ascesa”, che diede a Mussolini l’opportunità di instaurare uno Stato forte, con il consenso dei nazionalisti della destra conservatrice, incrementato dalle imprese coloniali dell’Italia fascista, ma anche con il consenso dei proletari, poiché la politica economica fascista, con la “Carta del Lavoro”, difese i lavoratori dal liberismo, che propugnava invece l’assenza dello Stato in materia economica; la dittatura fascista ha inoltre avuto il merito di imporre i C.C.N.L., propugnando l’intervento dello Stato in materia economica e ricevendo il plauso di ex sindacalisti della CGL. Il corporativismo fascista fu inoltre per De Felice un fenomeno del tutto nuovo, che niente aveva a che fare con quello medievale; per questo il fascismo non ha cercato modelli nel passato, ma ha voluto costruire un uomo nuovo per una civiltà nuova, il fascismo fu quindi nel complesso un fenomeno moderno e rivoluzionario.

In Mussolini il fascista. L’organizzazione dello Stato fascista, Torino, Einaudi, 1968, De Felice riporta un documento di ex sindacalisti della CGL in cui si considera sostanzialmente positiva la politica economica del regime fascista: “La politica economica del Fascismo, per esempio, si identifica, sotto certi riguardi, con  la nostra. Noi non eravamo d’accordo con lo Stato liberale per il suo non intervento nella attività economica (…) Il Regime fascista ha fatto una legge certamente ardita sulla disciplina dei rapporti collettivi di lavoro. In quella legge vediamo accolti dei principi che sono pure i nostri. Finché durava lo Stato liberale, da una parte, e finché dall’altra gli operai rimanevano fermi nel loro misconoscimento dello Stato, una legge di tal fatta era improponibile. In tutti i paesi in cui è stata applicata la politica dell’intervento si è fatto qualche cosa che si avvicina al sindacato giuridico e alla magistratura del lavoro ed in Russia più che altrove. Dunque, nessuna opposizione di principio a questa riforma. Parimenti noi saremmo in contraddizione con noi stessi se ci ponessimo contro lo Stato corporativo o la Carta del lavoro, che il regime fascista intende realizzare. Basta richiamare i nostri voti e i nostri progetti del passato, per stabilire che siamo tenuti a contribuire con la nostra azione e con la nostra critica alla buona riuscita di tale esperimento”.

In Intervista sul fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1975,  De Felice definisce il fascismo come la “rivoluzione” dei ceti emergenti:: “Il fascismo fu il tentativo del ceto medio, della piccola borghesia ascendente – non in crisi – di porsi come classe, come nuova forza. In questo senso il <<fascismo movimento>> fu un tentativo di prospettare nuove soluzioni <<moderne>> e <<più adeguate>> (…) Checché dica tanta gente, secondo me sì: si può parlare (per il fascismo) di fenomeno rivoluzionario; però nel senso etimologico della parola, perché se si pretende di parlare di rivoluzione dando alla parola un valore morale, positivo o, ancor più, in riferimento a una concezione come  quella leninista, allora è evidente che il fascismo non fu una rivoluzione. Ma secondo me è sbagliato applicare tale criterio a tutti i fenomeni. In questa prospettiva io dico che il fascismo è un fenomeno rivoluzionario (…) che tende alla mobilitazione, non alla demobilitazione delle masse, e alla creazione di un nuovo tipo di uomo. Quando si dice che il regime fascista è conservatore, autoritario, reazionario, si può avere ragione. Però esso non ha nulla in comune con i regimi conservatori che erano esistiti prima del fascismo e con i regimi reazionari che si sono avuti dopo. (…) I regimi conservatori hanno un modello che appartiene al passato (…). I regimi di tipo fascista, invece, vogliono creare qualcosa che costruisca una nuova fase della civiltà”.

In Mussolini il duce. Gli anni del consenso 1929 – 1936,  Torino, Einaudi, 1974, Renzo De Felice sostiene che i primi anni ’30 furono quelli in cui il regime seppe catturare il consenso all’interno del Paese, grazie anche alla capacità dimostrata nel saper frenare le ripercussioni della crisi del’29; dal 1922 al 1929 il regime si era instaurato e consolidato e non c’era rischio di capovolgimenti, né sul piano internazionale, né interno, grazie ad una politica economica sociale; la conquista dell’Etiopia nel 1936, poi, rafforzò il consenso del duce sull’onda di entusiasmi nazionalistici ed imperialistici, volti alla conquista di un  <<posto al sole>> anche per l’Italia, bramosa di riscattare il massacro di Adua a cui l’aveva condotta Crispi. Scrive infatti De Felice: “Con la seconda metà del 1929 il regime fascista entrò (…) in una nuova fase della sua storia, la fase che può essere definita della sua maturità. Almeno sul piano interno, esso aveva ormai fatto le sue scelte di fondo, aveva definito i suoi equilibri e il suo assetto, si era dato le sue strutture più caratteristiche (…) La situazione internazionale non era certo tale da mettere il regime in difficoltà. Quanto a quella interna, realisticamente bisogna dire che mai essa, pur con tutte le sue difficoltà (soprattutto economiche), fu per il regime tanto buona quanto durante il quinquennio successivo al  <<plebiscito>> e alla Conciliazione. In anni posteriori, specialmente sull’onda degli entusiasmi nazionalistici per la <<conquista dell’impero>>, il regime godette certamente ancora di grande prestigio. (…) L’autorità statale non era sostanzialmente messa in discussione dalla grande maggioranza degli italiani; il  <<modello morale>> del fascismo era largamente accettato e non suscitava nei più contrasti tra il pubblico e il sovrano; la politica del regime nel suo complesso non appariva né pericolosa né irrazionale (…); il cittadino qualunque, <<il buon cittadino>>, infine, aveva ancora relativamente pochi contatti diretti col partito, sicché la sua vita privata non ne era toccata –  per il momento – che assai raramente e in maniera non pesante, sicché per esso i benefici, veri o presunti, che il regime gli procurava erano nel complesso maggiori degli svantaggi. E’ per questo che, volgendoci oggi indietro a considerare l’intero arco del periodo fascista senza altre preoccupazioni che quella di comprenderlo storicamente senza lasciarci suggestionare dal clamore che certe vicende suscitarono in Italia e all’estero, crediamo che – tutto considerato – sia giusto affermare che il quinquennio ’29-’34 fu per il regime fascista e, in sostanza, anche per Mussolini il momento del maggior consenso e della maggiore solidità”.

Al di là delle opinioni personali, va riconosciuta a  De Felice la notevole serietà con la quale  ha analizzato i documenti, che ha consentito la produzione di monumentali opere sul fascismo e sulla   vita di Mussolini. La tesi defeliciana fu accusata di “revisionismo” in quanto gli storici oppositori di De Felice sostennero che i ceti medi erano in crisi, e non in sviluppo, e negarono il fatto che il fascismo potesse ottenere consensi tra le fila del proletariato, perché la politica economica del regime, dietro la pura demagogia della  “Carta del Lavoro”  nascondeva sempre l’intento di tutelare i privilegi dell’alta borghesia.

Un’ultima interessante interpretazione sul fascismo è quella cosiddetta “bonapartista”, avanzata da August Talaimer: questa interpretazione considera il fascismo e la figura di Mussolini come una forma novecentesca,  “in piccolo”, di bonapartismo, con riferimento a Napoleone III. Secondo Talaimer, storico comunista tedesco espulso dal partito, il fascismo si è presentato solo perché c’era il rischio di una rivoluzione proletaria, che era fortissimo dopo il biennio rosso. Talaimer ritenne però insufficiente la tesi marxista e cercò di superarla, e per questo fu espulso dal partito comunista tedesco. Talaimer ritiene quindi insufficiente, da un lato, la tesi marxista, e nega, dall’altro, l’interpretazione revisionistica di De Felice, perché la piccola borghesia non sarebbe stata la classe portavoce del fascismo, ma una classe sociale che doveva ancora trovare la sua posizione. La minaccia di una rivoluzione proletaria è quindi per Talaimer una della fondamentali cause dell’avvento del fascismo, definito “una controrivoluzione in ritardo”, perché si afferma quando la rivoluzione proletaria è già stata sconfitta. Talaimer esamina le categorie marxiane de Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte: sotto questo aspetto “il fascismo rappresenta tutti i ceti sociali, il popolo, la piccola borghesia, la media borghesia, la nazione intera. Questo era l’intento di Bonaparte: rappresentare la nazione francese. Bonaparte non può dar niente ad una classe senza prendere niente da un’altra. Crea l’ordine per eliminare l’anarchia, ma creando l’ordine, ricrea l’anarchia”[7]. Come quella defeliciana, anche la tesi bonapartista suscitò varie polemiche tra gli storici e fu negata, ad esempio, dallo storico marxista Salvadori[8].

 

Marco Martini

 


[1] Cfr. G. Volpe, Storia del regime fascista, 1939.

[2] Cfr. B. Croce, “Manifesto degli intellettuali antifascisti”, in E. R. Papa, Storia di due manifesti, Feltrinelli, Milano,

1958.

[3] Cfr. P. Gobetti, Risorgimento senza eroi, 1926.

[4] Cfr. A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, 1938, pubblicato all’estero.

[5] Cfr. E. Santarelli, Storia del fascismo, Roma, Editori Riuniti, 1967, 2 voll.

[6] Cfr. R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, Torino, Einaudi, 1965 ; Mussolini il fascista. La conquista

                                del potere 1921-1925, Torino, Einaudi, 1966 ; Mussolini il fascista. L’organizzazione dello Stato

                                fascista 1925-29, Torino, Einaudi, 1968 ; Mussolini il duce. Gli anni del consenso 1929-1936,

Torino, Einaudi, 1974 ; Intervista sul fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1975 ; Mussolini il duce. Lo

                                Stato totalitario 1936-40, Torino, Einaudi, 1981 ; Mussolini l’alleato, Torino, Einaudi, 1990.

[7] Cfr. K. Marx, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte, in Karl Marx – Friedrich Engels, Opere Scelte, a cura di L.

Gruppi, Roma, Editori Riuniti, 1979.

[8] Cfr. Salvadori, Storia dell’età contemporanea, Roma-Bari, Laterza.

 

LE INTERPRETAZIONI SUL FASCISMOultima modifica: 2015-05-11T12:35:48+02:00da m_200
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