LE INTERPRETAZIONI SULLA RIVOLUZIONE FRANCESE

LE INTERPRETAZIONI SULLA RIVOLUZIONE FRANCESE

La storiografia sulla Rivoluzione francese ha evidenziato tre principali filoni storiografici: uno cattolico-revisionista, uno moderato, uno marxista-legittimista.

La critica storica cattolico-revisionista è magistralmente interpretata da De Maistre[1], per il quale la Rivoluzione francese fu un colossale errore, frutto estremo dell’Illuminismo e del giacobinismo, “un’opera atroce del demonio”[2], al quale bisogna contrapporre una società teocratica, fondata sull’infallibilità del potere pontificio; il potere del papa deriva la propria infallibilità, infatti, direttamente da Dio e per questo dal potere del papa deve dipendere quello del re. Infallibilità spirituale e sovranità temporale sono quindi sinonimi; poiché il papa è infallibile, deve anche possedere il potere politico, ma per potere essere uno strumento di governo, tale potere deve essere anche assoluto. Una volta riconosciuta la sovranità della Chiesa, non si potrà più protestare contro le sue decisioni. Per governare bene, la Chiesa dev’essere anche organizzata come una monarchia assoluta, ma temperata dall’aristocrazia, in modo che il suo governo risulti il migliore di quelli possibili. Il governo della Chiesa è Uno, Unico, Unito, Assoluto, come anche quello della Repubblica, che è sempre Uno, Unico, Unito, Assoluto. L’infallibilità implica la supremazia. Di conseguenza, non è possibile contestare al Papa alcun errore, così come non si può contestare ad un monarca: l’autorità del Papa è e dev’essere infallibile. L’uomo, per sua natura, è perverso e corrotto, e necessariamente dev’essere governato. Il governo assoluto è necessario per costruire una società civile. Solo l’Inghilterra, secondo De Maistre, nel 1689 è riuscita a costruire una società senza il governo assoluto, ma tale esperienza deve ancora superare “la prova del tempo”[3] ; infatti, la “cancrena della libertà”[4] minaccia la Costituzione inglese. La Francia, secondo De Maistre, nella sua ansia di libertà, si è coperta di ridicolo e di vergogna, “ponendo sul trono un gendarme”[5], vale a dire Napoleone I Bonaparte., mentre il popolo è rimasto schiavo.

Sempre sul fronte revisionista, altri si trasformarono rapidamente da sostenitori in denigratori della Rivoluzione e delle sue idee, come Vittorio Alfieri, che, dopo aver composto nel 1789 un’ode entusiastica[6], si scagliò con inaudita violenza contro i francesi nei versi e nelle prose del Misogallo.

Una specie di bibbia dei controrivoluzionari d’ogni nazione divennero le Riflessioni sulla Rivoluzione francese, pubblicata dall’inglese Edmund Burke nel 1790, in cui, ad essere condannata senza appello è l’idea stessa di una brusca rottura con l’autorità della tradizione e con l’ordinamento gerarchico della società. Uno dei bersagli principali della polemica di Burke furono gli intellettuali francesi, accusati di astratto utopismo e di irreligiosità. Ben presto divenne consuetudine negli ambienti conservatori attribuire il cataclisma francese ad un complotto ordito da philosophes atei, da massoni e giansenisti.

Il celebre storico Tocqueville, nella metà dell’Ottocento, afferma che alla vigilia della Rivoluzione, il Terzo Stato è già destinato alla sconfitta, in quanto è fortemente dilaniato, al suo interno, tra contadini, che chiedono l’abolizione dei diritti feudali sulle terre, ed i borghesi, che avanzano pretese sul terreno costituzionale: la tesi di Tocqueville[7] sarà ripresa dagli storici sostenitori dell’interpretazione ‘revisionista’ della Rivoluzione francese, anche nel Novecento.

Il maggiore storico moderno revisionista della Rivoluzione francese è senza dubbio Georges Lefebvre: nelle sue due principali opere[8] dimostra serietà e profondità nell’analisi degli avvenimenti, l’azione reciproca dell’economia e dei fattori sociali sulla vita politica è sempre vagliata con precisione; la fedeltà ai fatti e l’impegno della ricostruzione ‘scientifica’ gli hanno fatto guadagnare la stima di uno studioso di parte avversa, il marxista Albert Soboul, che pure sottolinea il punto di vista soggettivo, dichiaratamente di parte, di Lefebvre. In modo particolarmente minuzioso Lefebvre analizza il fenomeno della “Grande Paura”, esploso nelle campagne francesi nella seconda quindicina del luglio 1789: fu un evento ‘reciproco’, dalle forti connotazioni psicologiche, in quanto se la “Grande Paura” dei nobili era dovuta alle bande di contadini, dai nobili chiamati “briganti”,  che assaltavano i castelli degli aristocratici al fine di bruciare gli atti contenenti gli antichi privilegi feudali, la “Paura” dei contadini e dei “citoyens” francesi nasceva invece dalla convinzione che la nobiltà si stesse coalizzando contro la Francia rivoluzionaria, nasceva cioè dal timore di un “complot aristocratique”.

In età contemporanea, uno storico particolarmente attratto dagli ambienti controrivoluzionari è stato Oliver Blanc, che ha anche pubblicato, come giornalista, numerosi articoli su riviste specializzate; di lui si ricordi L’ultima lettera[9], in cui riporta, con straziante commozione, le ultime parole dei condannati alla ghigliottina; si tratta di un complesso di lettere che i condannati a morte durante la Rivoluzione francese e soprattutto nella fase culminante del Terrore hanno scritto ai loro parenti, ma, automaticamente intercettate dalla burocrazia, non raggiungevano mai i loro destinatari. Disperse nelle diverse serie degli Archivi nazionali, queste lettere non erano mai state utilizzate ed erano rimaste inedite prima d’oggi. Blanc si è dimostrato uno studioso particolarmente attento ai funesti esiti della “Legge dei sospetti”.

Negli anni ’70 del Novecento risulta particolarmente interessante la tesi dello storico marxista francese Francois Furet, che, dopo aver visto nella Rivoluzione francese il luogo di nascita della democrazia moderna e dell’uguaglianza dei diritti[10], rivede la propria posizione in un’ottica revisionista, affermando che la Rivoluzione si è da tempo conclusa, e questa conclusione, saggia e moderata, è avvenuta per opera degli uomini della democrazia liberale e della cultura laica, “ignorando la degenerazione del tremendo ‘93”[11]

Il maggiore interprete di una linea moderata sulla Rivoluzione francese fu indiscutibilmente lo storico Guglielmo Ferrero[12], per il quale si possono distinguere nettamente due fasi all’interno di questo complesso fenomeno rivoluzionario che ha interessato la Francia dal 1788 al 1795: si tratta di due fasi di natura diversa, che sono state spesso, secondo Ferrero, erroneamente confuse, l’una creatrice di un nuovo orientamento dello spirito umano, di nuovi valori, quali quelli di “liberté, fraternité, égalité”, coniati e scanditi dalla convocazione degli Stati Generali (5 maggio 1789), dal “Giuramento della Pallacorda” (17 giugno 1789), dalla costituzione di un’Assemblea Nazionale Legislativa (9 luglio 1789), dalla presa della Pastiglia (14 luglio 1789), dall’abolizione dei diritti feudali (notte del 4 agosto 1789), dalla “Déclaration des droits de l’homme et du citoyen” (26 agosto 1789), da figure molto popolari come quelle di Camille Desmoulins e di Georges Danton, dall’istituzione della Guardia Nazionale con il marchese La Fayette, nobile illuminato, dalla costituzione civile del clero (luglio 1790), dalle Costituzioni del 1791 (monarchica-costituzionale) e del settembre 1792, che instaura la Repubblica, dalla battaglia di Valmy; ma proprio dallo stesso settembre 1792 si avverte una svolta profondamente negativa, contrassegnata dai “massacri di settembre” nelle carceri francesi, e seguita dalla morte del re (21 gennaio 1793), dalla sanguinosissima repressione vandeana, dalla creazione dei tribunali rivoluzionari (1793), dalla legge del 22 pratile dell’anno II della Repubblica (10 giugno 1794), dal Terrore che  ha portato alla ghigliottina Desmoulins e di Danton (aprile 1794). Questa seconda fase della Rivoluzione, mediante il meccanismo della paura, ha finito con il fagocitare la prima, ha condotto, secondo Ferrero, la Rivoluzione a negare se stessa, arrivando così ad un risultato  molto diverso da quello che si attendevano i suoi iniziatori. Ferrero è quindi uno storico moderato, che legge gli eventi rivoluzionari con gli occhi di Hegel: proprio nel 1807 il più grande idealista tedesco aveva criticato questa seconda fase della Rivoluzione, il terrore, distinguendola dalla prima[13].

Sempre su una linea moderata si collocano gli storici Savine e Bounand, autori di una biografia su Robespierre[14], nella quale emergono tutti  gli aspetti, sia positivi che negativi: Robespierre è l’incorruttibile, che, ha differenza del popolarissimo Danton, non si è arricchito dopo la sua elezione alla Convenzione, Robespierre è l’avvocato tutto dedito al lavoro, insigne studioso ed intellettuale, filosofo, profeta e teorico della Rivoluzione, bravissimo a scuola fin dall’infanzia, uno dei più vivaci poeti del gruppo del “Rosati”, ma è anche il tiranno che in nome di una cieca ed astratta fedeltà ad un’altrettanto astratta idea di “virtù” non esita a ordinare il massacro della controrivoluzione vandeana ed a mandare alla ghigliottina anche i suoi più stretti amici e collaboratori.

Nella sua visione moderata Bourgin[15] sottolinea gli aspetti maggiormente positivi della “Grande Rivoluzione”,che va ricordata e commemorata tanto per gli aspetti negativi quanto per quelli positivi. Si deve condannare in essa l’esaltazione fanatica di un astratto individualismo che ha portato sia il senso umanitario alla ghigliottina, sia il terrore come istituzione legale; il cammino della Rivoluzione francese fu un cammino faticoso e tragico verso la libertà, destinato comunque, per Bourgin, a destare l’attenzione non solo degli storici, ma di ogni uomo libero. Bourgin, nel sottolineare come la Rivoluzione francese abbia segnato l’inizio di una nuova era, ne paragona la portata a quella di Copernico in campo astronomico. In modo particolare Bourgin definisce la Rivoluzione francese come il “manifesto della libertà dell’uomo e del cittadino”[16], come si può rilevare dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino” del 26 agosto 1789.

L’interpretazione legittimista della Rivoluzione francese tende a giustificare, sia pure con diverse sfumature, ogni evento del lungo periodo rivoluzionario come un “bagno di sangue necessario” alla vittoria della libertà e della borghesia, nuova classe sociale in ascesa nel ‘700. Karl Marx dedica la prima parte di un suo importante studio[17] alla rivoluzione dell’ ’89. Per il teorico del socialismo scientifico la “base” o “struttura” di una società è determinata dall’economia, mentre tutto l’apparato legislativo, ideologico, politico, religioso, culturale in senso generale costituisce la “sovrastruttura”, che è fortemente condizionata dalla struttura; di conseguenza, quando muta la struttura, cioè l’economia di una società, deve mutare anche la sovrastruttura. E’ questo proprio il caso della Rivoluzione francese: ad un cambiamento strutturale (l’economia non era trainata dalla nobiltà parassitaria, che viveva a corte fin dai tempi del Re Sole, ma dalla borghesia, nuova classe sociale in ascesa che costituiva il 96% della popolazione), non ha corrisposto un cambiamento strutturale, poiché il potere politico era ancora detenuto dalla nobiltà e dall’alto clero, che rappresentavano solo il 4% del popolo francese, come aveva giustamente sottolineato l’abate Sieyès in Che cos’è il Terzo Stato?. Tale sfasatura ha secondo Marx inevitabilmente causato un urto tra struttura e sovrastruttura, che ha portato alla vittoria della struttura, cioè della borghesia sulla nobiltà, come attesta anche la Costituzione dell’anno III (1795), la borghesia, e non il proletariato, è infatti la classe sociale uscita egemone dalla Rivoluzione; nello scontro tra struttura e sovrastruttura vince infatti sempre la struttura, secondo Marx, in quanto è l’economia, e non la politica, l’ossatura di qualsiasi società. In questo senso Marx interpreta la storia in chiave dialettica, come “lotta di classe”[18].

Sempre nell’Ottocento, Jules Michelet storico di tendenza politica progressista, sottolinea come la Rivoluzione in Francia non fu solo il prodotto della ragione illuministica, ma anche del “cuore”, cioè delle emozioni, che non potevano più tollerare un mondo ingiusto e profondamente diviso: in questo contesto Michelet ricostruisce vita, passioni ed entusiasmi di donne che furono coinvolte nella Rivoluzione e che pagarono, anche a prezzo della vita, quel gigantesco rovesciamento del mondo; quella di Michelet è quindi, sostanzialmente, un’analisi sociologica[19], centrata sulle donne, che furono protagoniste di ogni fase della rivoluzione, dall’assalto ai forni al trasferimento del re e della sua famiglia da Versailles a Parigi. Inoltre, per Michelet, la Rivoluzione francese fu veramente una rivoluzione popolare e patriottica, come dimostra l’entusiasmo dei soldati della Guardia Nazionale nella guerra contro l’Austria; fu una rivoluzione patriottica e libertaria, “la Rivoluzione più rivoluzionaria che ci sia mai stata”, veramente trainata dal popolo[20].

Dichiaratamente di parte marxista è lo storico Albert Soboul, che nella Rivoluzione francese vide, insieme a quella inglese del XVII° secolo, il coronamento della lunga evoluzione economica e sociale che ha reso la borghesia padrona del mondo. L’origine della società francese, come di quella inglese, consisteva infatti proprio nella presenza, tra il popolo e l’aristocrazia, di una forte classe borghese, che aveva a poco a poco elaborato una propria ideologia e formati i quadri di una nuova società; la società dell’antico regime era destinata a soccombere[21]. Su questa tesi dell’inevitabile fine dell’antico regime si colloca anche lo studio di Paolo Viola[22], uno storico marxista contemporaneo che tuttavia si mostra meno ‘ortodosso’ di Soboul, in quanto non manca di sottolineare come, ad esempio, l’istituto dei tribunali rivoluzionari fosse in realtà la negazione di ogni forma di legalità[23]  e come la morte di Luigi XVI, il 21 gennaio 1793, abbia aperto in Francia una crisi di potere che avrebbe presto portato alla dittatura di Robespierre e di pochi altri[24].

Lo storico Marco Revelli, docente universitario di Scienza della Politica, si colloca sempre su una linea progressista della Rivoluzione francese: ha studiato in particolar modo la figura di Robespierre, che viene sostanzialmente difeso e definito un “democratico”, anche se un “democratico radicale ed intransigente, esempio del primato dello spirito pubblico e delle virtù repubblicane senza le quali una democrazia evapora e degenera in oligarchia o comunque in un regime del privilegio”[25].

Aldilà di ogni interpretazione più o meno ideologica o di parte, resta il monumentale studio complessivo sulla Rivoluzione francese di Francois Furet e Mona Ozouf[26], opera che ogni persona che voglia seriamente avvicinarsi a quest’ evento epocale non può non considerare: qui si studiano avvenimenti, protagonisti, creazioni ed istituzioni, idee, interpreti e storici con trattazioni esaurienti, degne d’un sapere enciclopedico.


[1] Il conte Joseph De Maistre, diplomatico e scrittore savoiardo, fu il più intransigente ed anche il più celebre tra gli

avversari della Rivoluzione francese e della cultura che l’aveva prodotta. Nei suoi scritti la polemica antirivoluzio-

naria, già compiutamente espressa nelle Considerazioni sulla Francia del 1706, si traduce nella condanna di ogni

forma di razionalismo e di costituzionalismo e nell’esaltazione della società teocratica, fondata sull’autorità supre-

ma della Chiesa di Roma. In Del Papa (1819), De Maistre stabilisce una correlazione tra il concetto di infallibilità

nell’ordine spirituale e quello di sovranità nell’ordine temporale ed analizza il rapporto di analogia e di reciproca

dipendenza esistente tra il potere del pontefice e quello dei re. La strenua difesa del tradizionalismo più intransigen-

te, visto come strumento della Provvidenza, emerge anche ne Le serate di Pietroburgo, lavoro apparso postumo, nel

1821.

[2] Cfr. J. De Maistre, Del Papa (1819), in I controrivoluzionari, a cura di C. Galli, Il Mulino, Bologna, 1981, p.79.

[3] Ibid., p. 87.

[4] Ibid.

[5] Ibid., p. 97

[6] Cfr. V. Alfieri, Parigi sbastigliata.

[7] Cfr. Ch. – A. de Tocqueville, L’antico regime e la rivoluzione, 1856.

[8] Cfr. G. Lefebvre, La Grande paura del 1789, Einaudi, Torino, 1973, e L’Ottantanove, Einaudi Torino, 1975.

[9] Cfr. O. Blanc, La dernière lettre, Editions Robert Laffons, S.A., Paris, 1984, trad. a c. di Giacinto Gennusa, ed. Sugar-

co, Milano, 1984.

[10] Cfr. F. Furet – D. Richet, La Rivoluzione francese, trad. a c. di Silvia Brilli Cattarini e di C. Patanè, Laterza, Bari,

1980.

[11] Cfr. F. Furet, Critica della Rivoluzione francese, trad. a c. di Silvia Brilli Cattarini, Laterza, Roma-Bari, 1989.

[12] Cfr. G. Ferrero, Le due rivoluzioni francesi, Sugarco, Milano, aprile 1986.

[13] Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, La Nuova Italia, Firenze, 1979, trad. a c. di Enrico De Negri, vol.

II, pp. 42-135.

[14] Cfr. A. Savine – F. Bounand, Maximilien-Marie-Isidore de Robespierre, trad. di L. Taroni, I Dioscuri, Milano, 1989.

[15] Cfr. G. Bourgin, La Rivoluzione francese, Fratelli Melita Editori, a cura di G. B. R. Figari, I Dioscuri, Genova, 1988.

[16] Ibid.

[17] K. Marx, La guerra civile in Francia, 1871. Questo testo, scritto da Marx  nell’aprile-maggio 1871, venne pubblicato

per la prima volta in inglese, a Londra, il 13 giugno 1871. La prima parte si occupa della Rivoluzione francese del

1789; la seconda studia le “tre gloriose giornate di luglio” (27, 28 e 29 luglio 1830) a Parigi, che portarono alla cac-

ciata di Carlo X (succeduto a Luigi XVIII, fratello del ghigliottinato Luigi Capeto  XVI) e del suo ministro, il reazio-

nario Principe di Polignac, ponendo fine alla monarchia assoluta ed instaurando la monarchia costituzionale di Luigi

Filippo d’Orleans; la terza parte analizza i moti del 1848, che portarono alla breve repubblica, durata dal febbraio all’

aprile 1848; l’ultima studia infine l’insurrezione della Comune di Parigi nel 1871, entusiasticamente salutata da Marx

come la prima forma di autogoverno degli operai, il primo esempio di “società socialista”.

[18] Cfr. K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, trad. a c. di Domenico Losurdo, Laterza, Roma-Bari,

2003.

[19] Cfr. J. Michelet, Le donne della Rivoluzione, prefazione di Lucio Villari, trad. a c. di Lisa Baruffi, Bompiani, Milano,

1996.

[20] Cfr. J. Michelet, Storia della Rivoluzione, trad. di C. Giardini. Milano, 1960.

[21] Cfr. A. Soboul, La Rivoluzione francese, trad. a c. di Giuseppe Vettori, Newton, Milano, 1988.

[22] Cfr. P. Viola, Il crollo dell’antico regime. Politica e antipolitica nella Francia della Rivoluzione, Donzelli ed. Roma,

1993.

[23] Cfr. P. Viola, E’ legale perché lo voglio io, Laterza, Roma-Bari, 1994

[24] Cfr. P. Viola, Il trono vuoto, Einaudi, Torino, 1989.

[25] Cfr. M. Revelli, Robespierre, ovvero la Rivoluzione, in “Liberazione”, Roma, 2005.

[26] Cfr. F. Furet – M. Ozouf, Dizionario critico della Rivoluzione francese, a cura di Massimo Boffa, Bompiani, Milano,

1988.

LE INTERPRETAZIONI SULLA RIVOLUZIONE FRANCESEultima modifica: 2015-05-11T12:37:07+02:00da m_200
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