Italia ed Europa tra Rinascimento e prima età moderna

ANNO ACCADEMICO 2015/16

SCUOLA NORMALE SUPERIORE DI PISA – Piazza dei Cavalieri, 7, Palazzo della Carovana, Sala degli Stemmi, 50126 PISA

ISTITUTO NAZIONALE DI STUDI SUL RINASCIMENTO – P. zza degli Strozzi, Palazzo Strozzi, 50123 FIRENZE

CONVEGNO NAZIONALE: GIO. 10, VEN. 11 (S.N.S. di PISA) e SAB. 12 DIC. 2015 (I.N.S.R. FIRENZE), H. 10/13 – 15/18 – ATTI DEL CONVEGNO:

ITALIA ED EUROPA TRA RINASCIMENTO E PRIMA ETA’ MODERNA

 

PROGRAMMA DEL CORSO.

GIO. 10/12 (PRIMA GIORNATA).

Introduzione (Prof. M. Ciliberto, ordinario di Storia della filosofia del Rinascimento, Scuola Normale Superiore di Pisa, e Direttore dell’I.N.S.R.).

1.L’influenza di Poliziano sui ‘riformatori’ del sapere del Cinquecento francese (Prof. ssa A. Angelini, associato di Storia della filosofia del Rinascimento, Università “Alma Mater”, Bologna).

2.Cardano in Francia: la “science du monde” (Prof. ssa M. Baldi, ordinario di Storia della filosofia, Università di Milano).

3.Geoffrey Tory tra tipografia, filosofia e architettura (Dott. ssa L. Brotto, ricercatrice, Scuola Normale Superiore di Pisa).

4.I “Ricordi” in Francia: la prima fortuna delle massime politiche di Francesco Guicciardini. (Prof. ssa M. E. Severini, associato di Storia della filosofia, Scuola Normale Superiore di Pisa).

5.Montaigne lettore di Guicciardini e Machiavelli (Prof. ssa N. Panichi, ordinario di Storia della filosofia, Università di Urbino).

6.Descartes e Campanella. La storia di una relazione intellettuale complicata (Prof. G. Paganini, ordinario di Storia della filosofia, Università del Piemonte Orientale).

VEN. 11/12 (SECONDA GIORNATA).

1.Dal Messico alle Fiandre a Londra: la carriera in fuga di un eretico italiano (Dott. ssa S. Pastore, ricercatrice, Scuola Normale Superiore di Pisa).

2.Le dannabili opinioni di Christopher Marlowe (prof. G, Sacerdoti, ordinario di Letterature comparate, Università Roma Tre).

3.Bruno, Shakespeare e la pittura dell’ombra (Dott. ssa L. Carotti, ricercatrice, Scuola Normale Superiore di Pisa).

4.Shakespeare e la cultura italiana. Il caso Cymbeline (Dott. ssa I. Campeggiani, ricercatrice, Scuola Normale Superiore di Pisa).

5.Machiavelli a Oxford: Alberico Gentili e la guerra giusta (Prof.ssa R. Camerlingo, ordinario di Letteratura inglese, Università di Perugia).

6.Spionaggio e teologia nel Cinquecento anglo-veneto (Dott. D. Pirillo, ricercatore, Scuola Normale Superiore di Pisa).

7.Bacone e le favole antiche (Prof. ssa S. Bassi, ordinario di Storia della filosofia dal Rinascimento all’Illuminismo, Università di Pisa).

SAB. 12/12 (TERZA GIORNATA).

1.Giordano Bruno in Germania (Dott. ssa I. Russo, ricercatrice, Scuola Normale Superiore di Pisa).

2.Giordano Bruno a Praga: tra lullismo, geometria e filosofia (Dott. M. Matteoli, ricercatore, Scuola Normale Superiore di Pisa).

3.Giordano Bruno e il ritorno della metafisica a Zurigo (Dott. M. Lamanna, ricercatore, Scuola Normale Superiore di Pisa).

4.Che direbbe Aristotele? Usi del filosofo tra Galileo e l’età confessionale (Dott. ssa E. Del Soldato, ricercatrice, Scuola Normale Superiore di Pisa).

5.Sogni, edizioni, allusioni: Machiavelli a Basilea (Dott. P. Terracciano, ricercatore, Scuola Normale Superiore di Pisa).

6.Machiavelli, Guicciardini e le illusioni della diplomazia polacca (Dott. ssa V. Lepri, ricercatrice, Università “Artes Liberales” di Varsavia, Polonia).

7.”Uomini di pensiero e di fede”. Migrazione intellettuale e circolazione delle idee in Benedetto Croce (Dott. S. Carannante, ricercatore, Scuola Normale Superiore di Pisa).

 

GIO. 10/12 (PRIMA GIORNATA).

Introduzione (Prof. M. Ciliberto, ordinario di Storia della filosofia del Rinascimento, Scuola Normale Superiore di Pisa, e Direttore dell’I.N.S.R.).

Scopo del convegno è duplice: 1)analizzare la migrazione intellettuale italiana (tema, ahimè, di scottante attualità); 2)studiare i rapporti tra Italia ed Europa nel Rinascimento. Carlo Morandi ha scritto pagine molto interessanti sulla migrazione intellettuale italiana tra ‘500 e ‘600; Gramsci, nei Quaderni dal carcere, vede la migrazione intellettuale italiana come un fenomeno di cosmopolitismo. La questione della migrazione intellettuale italiana tra Rinascimento e prima età moderna è un fenomeno vasto, che riguarda grandi intellettuali come Bruno, che emigrano all’estero perché perseguitati e censurati in patria, ma anche figure minori, come tipografi e editori. In proposito, si vedrà il ruolo svolto dalla Riforma protestante a riguardo.

Sul piano geografico, l’orizzonte si allarga alla Francia, alla Germania, all’Inghilterra, alla Boemia presso la corte di Rodolfo d’Asburgo. Gli intellettuali italiani non furono sempre ben accetti, spesso furono visti come elementi di corruzione, altre volte vennero manipolati. Il problema della migrazione è quanto mai oggi attuale, comporta il confronto e l’integrazione tra identità nazionali culturali e religiose diverse: nel tardo Rinascimento l’Italia è protagonista di prima grandezza nella storia europea. Delio Cantimori, nel suo libro sugli eretici, ha offerto un contributo notevolissimo in materia. Ricercare a posteriori coincidenze tra testi ed opere relativi ad ambiti culturali diversi, quali filosofia, storia, letteratura, arti figurative, senza scadere nell’interdisciplinarietà bassa e volgare, scolastica, aprioristica, costituisce il metodo di conduzione dei lavori di questo convegno di studi.

 

 

1.L’influenza di Poliziano sui ‘riformatori’ del sapere del Cinquecento francese (Prof. ssa A. Angelini, associato di Storia della filosofia del Rinascimento, Università “Alma Mater”, Bologna).

Nella Scuola di Chartres si era formato un gruppo di intellettuali, come presso i medici ed i grammatici: si tratta di gruppi eterogenei dell’élite borghese che mira a realizzare il connubio fra teoria e pratica. E’ questa la nuova “Renaissance” sulla quale hanno insistito a lungo Garin e Vasoli. Nel 1566 si invitano gli intellettuali francesi ad uscire dalla Sorbonne per mettere in pratica il loro sapere matematico, in modo da abbattere la separazione tra “sapere alto”, speculativo, e “sapere basso”, tecnico, empirico. La matematica non è quindi quella dei neoplatonici, ma quella di Archimede, applicata, ad esempio, alla geografia, come con Cristoforo Colombo. Tala connubio avrà molta fortuna, come è noto, in Galileo. Anche giuristi e storici delle Università di Pisa e Firenze sposano questo connubio, come Cristoforo Landino.

Angelo Poliziano, che matematico non era, era però attratto fortemente dalla matematica applicata, e nelle sue poesie applica la matematica alla dialettica: Poliziano non vede nelle “matematiche pratiche” diversi saperi, ma uno stesso sapere. E’ lo stesso intento sposato da Pico della Mirandola nel De hominis dignitate.

Il sapere dev’essere quindi unitario, perché solo un pensiero unitario fa dell’uomo un dotto ed un cittadino. E’ quella prassi che Poliziano incontra non nelle stanze del suo studio, ma nelle strade della Firenze tardo quattrocentesca, tra le botteghe di orafi e calzolai.

In questo contesto, è superata la metafisica tradizionale di Platone e Cusano a vantaggio di una metafisica fondata sulla simultaneità di teoria e pratica, è questo il “divino camaleonte” di cui parla Pico. Poliziano è quindi un netto avversario della filosofia Scolastica e dell’imbarbarimento di Aristotele operato dai chierici medievali.

Emerge anche una nuova concezione della medicina e della magia, rispettivamente con il Corpus hermeticum di Ermete Trismegisto per quanto concerne la medicina e la Theologia platonica di Marsilio Ficino circa la magia, che diventa scienza della natura.

Si riprendono gli studi mnemotecnici di Raimondo Lullo, che tanta fortuna avranno in Pico ed in Giordano Bruno, è questo anche il sapere umanistico rinnovato di Lorenzo Valla, che a Firenze ottenne la prima cattedra di greco e che penetra in Poliziano come sintesi di pensiero e parola, perché il pensiero è l’organo del linguaggio. E’ questa la nuova logica, nesso di poesia e filosofia, parole e pensiero, immaginazione e ragione.

 

2.Cardano in Francia: la “science du monde” (Prof. ssa M. Baldi, ordinario di Storia della filosofia, Università di Milano).

Cardano è un intellettuale italiano che avrà influenza sulla Scienza Nuova di Vico, come afferma Pampaloni, e che emigra in Francia, ove viene strumentalizzato dalla cultura di regime, come si evince dai tagli e dalle pesanti variazioni apportate dagli editori francesi alle sue opere. Cardano scrive in latino, come molti intellettuali del suo tempo, nel Seicento, ma viene “vestito alla francese”, si vuole esercitare una sorta di “patronato francese”, a differenza di quanto fece invece Francesco Giorgio Veneto (prima di Cardano) nel primo Umanesimo, un intellettuale che avrà molta influenza sulla cultura francese del suo tempo. Cardano si era espresso in modo poco lusinghiero verso la Francia, e la Francia lo “francesizza”, compiendo un’operazione filologicamente scorretta. I francesi traducono, ad esempio, il termine cardaniano “prudenza” come saggezza, ossia sapere scientifico, certezza, facendo una forzatura pesante, che sposta il piano soggettivo della prudenza a quello oggettivo della scienza. Cardano parla della natura dell’uomo in modo logico e rigoroso, ma è proprio questo rigore che viene stravolto dagli editori francesi. L’uomo è per Cardano, aristotelicamente, un “animale gregario”, che necessita della comunicazione civile per manifestare la sua “potentia” per non finire divorato dalle “potestas” degli altri. La definizione cardaniana dell’uomo risente della Politica di Aristotele come della filosofia della natura di Bernardino Telesio (anticipatore di Bruno).

L’ordine di Cardano è complesso, labirintico, ed è proprio questa complessità che viene arbitrariamente stravolta dagli editori francesi. Cardano non si piegò al mecenatismo, a differenza di tanti intellettuali del suo tempo. La comunicazione civile tra gli uomini risiede, per Cardano, nella “mediazione”, il “buono” è l’ “onesto” ed il “turpe” il “disonesto”.

Il modello seguito da Cardano nella sua impostazione filosofica è ricorrente anche nella letteratura del suo tempo. Concepisce la matematica inizialmente come scienza quantitativa: in seguito estende tale criterio quantitativo a tutte le “res humanae”, che sono assimilabili alla materia e quindi estremamente “plastiche”, “materiali”, e non “formali”. Questo si afferma in un altro fondamentale testo di Cardano, il De sapientia, opera in 3 libri, in cui l’autore sostiene che la dimensione umana è quella dell’apparire e non dell’essere; la realtà umana è “mista”, “soggettiva”, non certa. E’ una filosofia della soggettività, non dell’oggettività, quella di Cardano, e la comunicazione umana non avviene in modo gerarchico, ma orizzontale, “alla pari”.

Tutti gli aspetti machiavellici presenti in Cardano, relativi alle “occasioni”, vengono censurati completamente dalle edizioni francesi: tali “occasioni” vengono impropriamente ed aristotelicamente tradotte come “giusto mezzo” nelle azioni per volontà della monarchia francese (con tutto il suo apparato culturale, ormai consolidato). E’ questo lo stile dell’ “uomo d’ onore” francese, che vuole confondere la virtù con l’amicizia. Il prosseneta, opera manoscritta in latino da Cardano, è una sorta di enciclopedia di sopravvivenza del singolo nella società. Cardano viene quindi manipolato appositamente dalla monarchia francese di Luigi XIII, in particolare da Richelieu prima e Mazarino poi, al fine di una “paideia” del tutto francese. L’opera di Cardano si chiude con una digressione sulla musica, mentre l’edizione francese si chiude con un capitolo sull’educazione dei bambini. Cardano ci parla anche dei modi di vestire, e ne individua 14, sulla basa di 4 criteri, leggero, leggerissimo, pesante, pesantissimo.

 

3.Geoffrey Tory tra tipografia, filosofia e architettura (Dott. ssa L. Brotto, ricercatrice, Scuola Normale Superiore di Pisa).

Tory è un intellettuale e stampatore francese, che vive nella Francia di Francesco I ed in Italia, scrive in francese nel primo ‘500. L’opera di Tory si armonizza con il mecenatismo di Francesco I: infatti morirà in Francia, proprio mentre era al servizio di Francesco I.

Esalta la dignità delle lingue volgari e la figura dello stampatore, nuova professione emergente dopo l’invenzione dei caratteri stampati di Gutemberg. La cultura francese guarda all’Italia con curiosità, ma vuole definire la propria identità. Tory vede gli italiani come uomini precisi, “dal compasso e dalla riga”, e di questo dovrebbero far tesoro i francesi.

Tory, come Leon Battista Alberti, sostenne che parole e figure dovevano identificarsi, ad esempio: I è linea retta, Oè circonferenza, S è linea tortuosa.

Le lettere vengono identificate anche con le parti del corpo umano, come si può vedere dal cerchio in cui è iscritto l’uomo vitruviano leonardesco.

La I, inoltre, congiunge cielo e terra, umano e divino, mentre la O, il cerchio, è il simbolo della divinità stessa (concetto già noto dal Medioevo e dall’arte gotica): Tory applica quindi l’alfabeto anche alla filosofia.

L’alfabeto è quindi un modo universale con il quale si possono tradurre l’uomo ed il mondo.

Tory denuncia inoltre la precarietà in cui stava vivendo la lingua francese che, se vuole evitare tale processo degenerativo, deve seguire regole precise. La lingua francese deve sfruttare la sua grazia, che la rende superiore al latino ed al greco nell’uso comunicativo quotidiano, afferma Tory con una certa retorica ed un forte “campanilismo nazionalista”. Inoltre, per Tory, proprio il greco, e non il latino, è alla base della lingua francese, grazie alla mediazione di Dionigi l’Areopagita. Proprio grazie al nesso con il greco, la lingua francese può confrontarsi con l’italiano, mentre il latino è visto da Tory come lingua ”colonizzatrice”. Gli accenti del francese sono importati dalla lingua italiana. Tory vede la culla della cultura classica in Francia, che ritiene superiore all’Italia.

 

4.I “Ricordi” in Francia: la prima fortuna delle massime politiche di Francesco Guicciardini. (Prof. ssa M. E. Severini, associato di Storia della filosofia, Scuola Normale Superiore di Pisa).

Il primo nucleo dei Ricordi politici e civili di Guicciardini fu composto in Francia, Nell’Ottocento Guicciardini fu interpretato in modo più intimistico e meno politico rispetto alle edizioni del ‘500. Nella Francia di Enrico IV di Borbone i Ricordi furono tradotti in francese e resi come un’opera pedagogica, volta a consolidare il potere monarchico; particolare importanza assumono le categorie di “mediazione” e “discrezione”, ovvero la capacità di “discernere”, distinguere, caso per caso, il “particulare”. Nel VI dei Ricordi lo storico fiorentino scrive infatti che “E’ grave errore parlare delle cose del mondo indistintamente; tale distinzioni ed eccezioni è bene le insegni la discrezione”.

L’interpretazione francese di Guicciardini mira soprattutto a contrapporre Guicciardini a Machiavelli; molti intellettuali francesi che apprezzavano Machiavelli non nascondevano infatti la loro avversione per Guicciardini. Viceversa, l’aristocrazia francese apprezzava invece Guicciardini, interpretato come pensatore antitetico a Machiavelli, al fine di moderare l’assolutismo monarchico e di far partecipare la nobiltà al potere, nell’ottica del “re saggio”, del “filosofo re” di platonica memoria (cfr. Platone, Repubblica, II, III).

E’ il mito del “buon politico” che si diffonde presso l’aristocrazia francese; il segretario di Stato assume, in questo contesto, un ruolo particolare, quello di moderare l’assolutismo monarchico sulla base di accorte teorie politiche, nelle quali è essenziale che il segretario sia esperto. Nell’opera guicciardiniana si possono distinguere 3 tematiche:

1.considerazioni di carattere economico;

2.considerazioni di carattere politico e militare;

3.considerazioni inerenti la magistratura e l’amministrazione della giustizia.

Le fonti dei Ricordi si ritrovano negli storici latini quali Cicerone, Tacito, Svetonio, Tito Livio, oltre che nello stesso Machiavelli; non mancano fonti derivate dalle filosofia greca di Platone e di Aristotele e dalla letteratura greca di Plutarco, o fonti bibliche come i Proverbi di Salomone.

 

5.Montaigne lettore di Guicciardini e Machiavelli (Prof. ssa N. Panichi, ordinario di Storia della filosofia, Università di Urbino).

A Guicciardini, Montaigne, dopo un iniziale elogio, muove una ferrea critica: lo elogia per la sua abilità di storico indagatore, superiore a Machiavelli. Infatti Guicciardini vaglia i documenti con maggiore rigore ed oggettività rispetto a Machiavelli, che sostituisce la storia con l’apologia, facendo emergere, nei personaggi che descrive, ciò che a lui interessa per sostenere le sue tesi, come nel caso della Vita di Castruccio Castracani, il condottiero lucchese. Con Guicciardini, per Montaigne, nasce invece la storiografia moderna., Guicciardini analizza la storia greco-romana in maniera anatomica.

Tuttavia, dopo l’elogio, iniziano le critiche: Montaigne considera Guicciardini troppo “sintetico” nei giudizi che esprime sugli altri, nei quali tende, inoltre, più a giudicare sé stesso. Anche se Guicciardini mostra conoscenze storiche precise, fa perdere alla storia la sua funzione pedagogica di “magistra vitae”.

Montaigne legge Machiavelli tradotto in francese, per quanto conoscesse il fiorentino, perché visse a Firenze gustando “meloni e cetrioli” (dei meloni era ghiotto), come fece, stando alle fonti, il 24 giugno, festa di San Giovanni. Montaigne critica il “metodo storico” di Machiavelli e dissente sulla politica intesa come scienza autonoma dalla morale (cfr. Essays, III). Ma la critica fondamentale di Montaigne allo statista fiorentino è quella già mossa da Guicciardini: si può dire, in sostanza, che Montaigne legga Machiavelli con gli occhi di Guicciardini (l’opera guicciardiniana studiata in proposito da Montaigne è le Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli sopra la prima deca di Tito Livio). Inoltre Montaigne insiste sulle capacità umane, che devono sempre dominare la fortuna e volgere il negativo in positivo. Inoltre Machiavelli riduce erroneamente, per Montaigne, tutta la vita alla politica, ma la vita è un “fiume eracliteo” e non si può ridurre alla politica: Montaigne svuota la “virtus” dalla politica. Machiavelli è per Montaigne troppo cinico e troppo ancorato alla realtà, non lascia spazio a nessuna fantasia. Montaigne concorda invece con Machiavelli sulla religione cristiana, che viene da entrambi considerata “alla pari” delle altre, e non superiore; come Machiavelli, il pensatore francese afferma che la Bibbia non può essere assunta come criterio di verità, e concorda con il De rerum natura di Lucrezio, il Timeo di Platone, Ovidio, Cicerone, che sono le fonti sulle quali Montaigne si appoggia per affermare la non eternità del mondo. Il nostro mondo, appena scoperto, non è detto che sia l’unico. Emerge qui, senza alcuna dimostrazione scientifica, ovviamente, poiché Montaigne non era certo scienziato, un’anticipazione della teoria bruniana e galileiana circa la possibilità di un universo infinito. L’origine del mondo resta, per Montaigne, “indeterminata”.

 

6.Descartes e Campanella. La storia di una relazione intellettuale complicata (Prof. G. Paganini, ordinario di Storia della filosofia, Università del Piemonte Orientale).

Cartesio è generalmente considerato il fondatore della filosofia moderna, quasi a volerlo salvare da qualsiasi contaminazione con il Rinascimento e con Campanella, afferma Hegel nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia, scritte a Berlino.

Nel 1638 padre Mersenne invia all’amico Cartesio la Metafisica di Campanella, ma Cartesio si rifiuta esplicitamente di leggerla, e nemmeno si degna di citarla, nella sua lettera di risposta a Mersenne, definendo il filosofo di Stilo “un fuoco fatuo, un po’ pazzerello”; tuttavia ne apprezzò lo spirito di ricerca, affermando che i filosofi dovranno diventare tutti eretici se la Chiesa dovesse proseguire a nascondere la verità. Campanella ha ancora tuttavia, secondo Cartesio, una concezione della natura ancora telesiana, circa le definizioni di ”caldo”, “freddo”, “secco” ed  “umido”.

Nel ‘900 la storiografia francese, come quella di Blancher, ha sostenuto che in Campanella, a differenza di Telesio, si troverebbe un’anticipazione del cogito cartesiano: nel De sensu rerum il filosofo calabrese parla però di un cogito “universale”, mentre nella prima delle sei Meditationes  cartesiane il cogito è sempre individuale, è un “ego cogito”.

Secondo invece il neotomista francese Gilson, Cartesio non è invece minimamente debitore di alcunché verso Campanella.

 

VEN. 11/12 (SECONDA GIORNATA).

1.Dal Messico alle Fiandre a Londra: la carriera in fuga di un eretico italiano (Dott. ssa S. Pastore, ricercatrice, Scuola Normale Superiore di Pisa)

Agostino Boasio (si trova citato come “Boatio” o “Boazio”) è un mercante genovese, nativo di Varazze, un uomo di cultura medio-bassa che emigra con il fratello, in cerca di fortuna, nel 1556, a Sachatecas, un piccolo centro che inizia ad urbanizzarsi, collocato nel deserto del nord del Messico,  vicino ad una delle più importanti miniere d’oro del Nuovo Mondo, una colonia spagnola abitata dagli indiani Chichinecos. Boasio scrive in castigliano.

Inizia a manifestare idee che saranno ben presto accusate di eresia: non crede all’autorità del papa ed al peccato originale, è accusato inoltre di diffondere testi eretici. Boasio legge e diffonde testi di Savonarola e i dialoghi di Alfonso de Valdèz, condannati dal papa, e per questo viene accusato di eresia, ma Boasio si difende affermando di avere diffuso il Trattato sulla misericordia di Savonarola, opera non colpita da censura ecclesiastica, e viene assolto.

Ma poco dopo Boasio viene nuovamente processato su iniziativa di un frate poco colto, a Città del Messico; si vuole chiudere il processo con l’abiura di Boasio. Si tratta di un caso di eresia grave, perché nel Nuovo Mondo è sconosciuta l’eresia luterana: soltanto nel 1570 verrà istituito il primo tribunale dell’Inquisizione a Città del Messico. Quindi Boasi ovine processato dall’arcivescovo di Città del Messico, ma ci si raccomanda do procedere “come se fosse il Santo Uffizio”. Vengono sequestrati i beni dell’eretico e la cerimonia processuale segue la prassi dei processi dell’Inquisizione, all’imputato viene accesa una candela sulla schiena. Circa 5000/6000 persone assistono al processo, che è pubblico, sulla piazza di Città del Messico; la gente che assiste è gente comune e dichiara di non aver mai sentito parlare di luteranesimo. Boasio viene processato insieme a Thompson, un eretico inglese, che la gente considera invece “un angelo” in quanto era biondo. Al processo si decide di trasferire Boasio in Spagna, a Siviglia, ma, durante il trasferimento in nave, Boasio si getta in mare e raggiunge a nuoto un’isola, mettendosi così in salvo; quando la nave giungerà a Siviglia, persino il capitano della nave sarà processato, con l’accusa di essere un eretico che ha permesso la fuga di Boasio. Boasio è ricercato, ma fugge prima nelle Azzorre, poi in Francia, presso il re di Borbone, che era protestante (ugonotto) e che lo difende, infine ad Anversa, nelle Fiandre, ove si spaccia per un capitano francese, ma qui viene intercettato da un gesuita, che lo accusa di aver tradotto e diffuso testi ereticali. A quei tempi i testi si diffondevano anche semplicemente lasciandoli agli angoli delle strade. Le Fiandre vivono in un momento delicato, alla vigilia della loro lotta contro Filippo II, che vuole imporre l’Inquisizione nei Paesi Bassi. Ad Anversa vengono trovati a Boasio 8 libri eretici. Anversa era particolarmente ostile alla dominazione spagnola; Filippo II, lamentandosi della “fiacchezza della giustizia”, scrive al governatore di Anversa, chiedendogli di far trasferire Boasio a Siviglia, ma Anversa godeva di una particolare autonomia, che le consentiva di concedere l’ospitalità ai mercanti stranieri. Filippo II vuole che il caso di Boasio venga chiuso con una punizione esemplare: Boasio viene processato ad Anversa, ma assolto perché non è possibile condannare un eretico che si è macchiato di eresia non ad Anversa, ma in centro America. Inoltre, il tribunale di Anversa aveva la consuetudine di non registrare per iscritto i verbali dei processi; Filippo II, che era solito annotare ogni minuzia, si adira.

Boasio fugge comunque a Londra, ove conosce un altro eretico, che era stato condannato, ma era riuscito a fuggire, Antonio Del Corro. Boasio vive in libertà a Londra, fino alla morte, mentre suo figlio, Battista Boasio, sarà assunto dal navigatore Francis Drake come cartografo ufficiale dei suoi viaggi; l’ultima carta geografica di Battista Boasio sarà proprio quella delle isole Azzorre, in onore a suo padre, che aveva trovato il suo primo rifugio da eretico.

 

2.Le dannabili opinioni di Christopher Marlowe (prof. G, Sacerdoti, ordinario di Letterature comparate, Università Roma Tre).

Marlowe faceva parte dei servizi segreti inglesi, denunciato ad Elisabetta, questa dà ordine di procedere e poco dopo Marlowe muore, misteriosamente pugnalato in una rissa. Nonostante facesse parte dei servizi segreti, questo non lo risparmiò dall’accusa di eresia.: si dice infatti che avesse tenuto una lezione di ateismo, altri ancora lo accusarono di panteismo. Fu accusato infatti di essere amico di Bruno, di essere un razionalista, di aver sostenuto le tesi dell’eretico Ario, condannate già nel 325 dal Concilio di Nicea (che aveva invece accettato la riformulazione della trinità nel dogma proposto da Atanasio). I cristiani difesi da Marlowe sono quelli che seguono il pensiero di Agostino, ma Marlowe definì i cristiani del suo tempo “peggio dei cannibali”, come aveva detto Bruno dopo la notte di San Bartolomeo del 24 agosto 1572. Preferì il paganesimo, che studia la natura delle cose, al cristianesimo, e sostenne che l’ateismo non ha mai recato nocumento agli Stati, a differenza delle religioni e del cristianesimo. Saranno queste, “dannabili opinioni” di Marlowe, riprese in parte anche da Spinoza.

Marlowe inoltre affermò che Adamo era vissuto appena 6000 anni fa e che non ci sono prove che sia stato il primo uomo sulla terra, ma è più probabile che siano nati prima gli indiani d’America. La Bibbia, inoltre, non poteva essere assunta come una storia universale dell’umanità; la cronologia biblica, anche per quanto concerne Mosè, è erronea. Mosè è considerato da Marlowe soltanto un mago che ha fatto errare gli ebrei per quarant’anni nel deserto, mentre sarebbe stato sufficiente solo un anno per attraversarlo. Mosè aveva lo scopo di far perire, durante i 40 anni nel deserto, coloro che erano a conoscenza della sua magia. Mosè considerava gli egiziani un pericolo, ma gli Ebrei “un popolo rozzo e grossolano”, facile da raggirare. Mosè era stato educato dalla sapienza egiziana, di cui aveva fatto tesoro, i suoi miracoli non sono altro che atti di magia, prodigi per abbindolare “caprai e pecorai”. Il faraone stesso dubitò della magia di Mosè (cfr. Esodo, VII,1), al quale contrappose quella dei suoi maghi di corte.

Ben diversa è la magia naturale pichiana, basata su forze attive e passive. Nell’antichità la magia era ben diversa, da Zoroastro, primo mago della storia, all’antico Egitto. Mosè è quindi un imbroglione, un mago, un impostore.

La famiglia della moglie di Apuleio, ad esempio, accusò Apuleio di magia e lo paragonò a Mosè. Non c’è alcuna prova, inoltre, dell’episodio dell’attraversamento del mar Rosso.

Marlowe, per muovere le sue critiche a Mosè, si appoggia alla letteratura latina dei primi due secoli d. C., citando Svetonio e Giuseppe Flavio.

La ragione naturale è la più grande nemica della superstizione religiosa della quale la Bibbia è colma.

Quarant’anni dopo, Hobbes, nel Leviathan, legittima la libertà di credere o non credere ai miracoli e se Bruno, nel tardo Rinascimento si presenta come l’emblema della libertà di coscienza, Spiniza, in età moderna, nel suo Tractatus theologicus-politicus,  innalza il medesimo vessillo.

 

3.Bruno, Shakespeare e la pittura dell’ombra (Dott. ssa L. Carotti, ricercatrice, Scuola Normale Superiore di Pisa).

Bruno vive anche a Londra e con Shakespeare ha un rapporto di continuità e di rottura. L’uomo vive in una realtà di ombre, a causa delle sua finitezza, ma può elevarsi verso la luce con la ragione filosofica, scrive Bruno nel De umbris idearum. L’amante siede all’ombra dell’amata, scrive sempre Bruno nella medesima opera. La conoscenza si configura come una successione di ombre, che può elevarsi verso la luce: si ritrovano qui reminiscenze platoniche del mito della caverna (Repubblica, VII) e di Cusano (De conjecturis). In Inghilterra, nel 1583, Bruno pubblica il Sigillus sigillorum, in cui rivaluta la fantasia come ausilio per la memoria; a Parigi, nel 1582, aveva pubblicato Il candelaio; l’ultimo dialogo scritto da Bruno è Degl’eroici furori, in cui si sostiene l’ “indianamento” o “eroico furore”, cioè la “spinta amorosa” (“eroici” appunto da “eros”) verso la conoscenza. Quello di Bruno è un “petrarchismo platonizzato” che, sul piano stilistico, tanta fortuna avrà in sede letteraria. Degl’eroici furori avrà immensa fortuna in Inghilterra.

Tale tematica delle ‘ombre’ ricorre anche nei Sonetti di Shakespeare, ove si parla dell’amore dell’occhio de pittore mirato verso la propria tavolozza. L’occhio del pittore è costretto a fare i conti con quello della mente: l’ombra dell’amata è capace di far luce sulle altre ombre, in una successione ‘ a catena’, sempre perfettibile, che mira verso la luce. L’amato è fissato nella tela dell’occhio dell’amante. L’occhio è lo specchio, come in dante e nella poesia stilnovista di Cavalcanti, Guinizzelli, Dino Frescobaldi, Lapo Gianni, Gianni Alfani, Cino da Pistoia.

Tale tematica investe anche la figura di Giulietta, in Romeo e Giulietta, in cui l’amante stesso diventa un’ombra al cospetto dell’amata: è quindi un ‘gioco di specchi’ presente in Shakespeare. Ad affianca il pittore è quindi proprio un poeta: si trovano in questo reminiscenze oraziane. L’amore trascende la natura finita e mira verso l’infinito, ma questo è anche un elemento negativo, perché segna una separazione con la realtà. E’ lo stesso rapporto, in pittura, tra il ritratto e la persona in carne ed ossa: l’arte è mediazione, interpretazione della realtà, falsificazione anche, della realtà stessa, che non può essere compiutamente rappresentata.

La natura resta, sia in Bruno che in Shakespeare, il punto di partenza a cui essere fedele nella continua tensione verso la conoscenza.

Tale tematica investe anche i Sonetti leonardeschi.

Passiamo adesso ad un’operazione di letteratura comparata: la rima “ombra” e “ingombra” si ritrova nel canto XXXI del Purgatorio, in cui Beatrice si “rivela” (proprio da “retrum velum”) a Dante, che toglie appunto il “velo dell’ombra” da una mente che risultava “ingombra” dai veli, cioè dalle falsità.

Nel Canzoniere petrarchesco (sonetto XI) è presente la rima “ombra” e “sgombra”: Laura è velata ed è un’ “ombra” che, piano piano, “sgombra” la mente del poeta da altre “ombre”. Nei sonetti LXXVII e LXVIII si parla dell’immagine di Laura e del passaggio dall’idea all’ombra, con riferimenti alla pittura. Il pittore trecentesco Simone Martini parla ancora dell’ombra illustrato nel volto dell’amata.

Il ‘gioco di specchi’ tra le ombre è quindi un sentiero verso la conoscenza che ha avuto fortuna sia nelle arti figurative che nella letteratura e in sede filosofica.

 

4.Shakespeare e la cultura italiana. Il caso Cymbeline (Dott. ssa I. Campeggiani, ricercatrice, Scuola Normale Superiore di Pisa).

George Bernard Shaw critica Cymbeline, un’opera appartenente alla tarda produzione shakespeareana. La definisce tortuosa nella trama, una sorta di tragicommedia preromantica in senso languido e sdolcinato, una miscela mal riuscita di ingredienti eterogenei. La trama parla della guerra contro i Romani ed alterna tematiche amorose e militari. Nello scritto shakespeareano si trovano reminiscenze boccacciane del Decameron, ma questo è oggetto di discussioni.

Più certi invece i rapporti di Shakespeare con Il negromante di Ariosto. L’Igor dell’Otello di Shakespeare è un truffatore malvagio come lo Iachino della commedia ariostesca: il riferimento si potrebbe trovare già nella somiglianza dei nomi. L’Igor del drammaturgo inglese è un ebreo, è definito un “marrano”, cioè un giudeo convertito costretto all’esilio nella Spagna di Filippo II; è inoltre scuro di carnagione (altro elemento negativo, nella cultura del tempo). Già ne Il mercante di Venezia il protagonista, Shylock, è un ebreo avido di denaro, un personaggio negativo. Sono queste tracce di antisemitismo non estranee alla cultura europea tardorinascimentale. Anche Iachino è  un mercante dalle mani “scure e velenose” che calunnia una giovane candida dalle mani “bianche come la neve al sole”. E’ il contrasto, un po’ narcisistico, presente in Shakespeare, tra la “carta bianca” e ”l’inchiostro nero”. Il negromante è paragonato ad un cattivo mago, che opera magia nera.

Iachino è un illusionista malvagio e disgustoso e Shakespeare guarda alla figura di Iachino nella composizione di Cymbeline: sia ne Il negromante che nell’opera shakespeareana è inoltre presente la ‘romanità’: i nomi di moltissimi personaggi sono infatti romani. Shakespeare chiude il Cymbeline auspicando la grandezza dell’Inghilterra: il Cymbeline rielabora anche tematiche dell’Orlando furioso, come la misoginia e l’infedeltà delle mogli. Si riprende anche il tema del rifiuto della conoscenza: per Rinaldo è preferibile non sapere se la donna amata lo ha tradito e per questo rifiuta la scommessa e si rifiuta di bere, al dolore che la verità può provocare è preferibile restare nella serenità dell’ignoranza. Anche nell’Ecclesiaste si legge: “Molto sapere, molto affanno”, che accresce il dolore.

 

5.Machiavelli a Oxford: Alberico Gentili e la guerra giusta (Prof.ssa R. Camerlingo, ordinario di Letteratura inglese, Università di Perugia).

Alberico Gentili, accusato di eresia, è costretto a lasciare l’Italia: arriva ad Oxford nel 1580. Diviene docente ad Oxford e viene ivi premiato nel 1588, ma ben presto inizia ad incontrare le ostilità dei teologi. Conobbe Machiavelli e ne divenne amico; Gentili considera Machiavelli un repubblicano, non un amico dei tiranni. Machiavelli non fa fortuna in Inghilterra e nel 1590 è definito un “personaggio grottesco” negli ambienti intellettuali londinesi puritani; di Machiavelli fu anche accusata la produzione teatrale. I teologi temevano che il travestimento degli attori penetrasse nell’animo delle persone stesse che li indossavano. In Inghilterra è diffuso un pregiudizio sugli intellettuali italiani, che aveva già visti coinvolti Pomponazzi e Cardano. Gentili difende invece il travestimento in teatro, che corrisponde all’etica machiavellica del fine che giustifica i mezzi, ovvero il travestimento giustifica il messaggio morale inviato dal teatro. Per Gentili la teologia riguarda solo la fede, non le relazioni tra gli uomini: questo fa infuriare i teologi inglesi puritani. Gentili afferma che la ‘cosa pubblica’ non può consentire intromissioni della religione, che è un atto volontario e privato di fede, né può, la religione, essere causa di “guerre giuste”: la “guerra giusta” per Gentili è solo quella per motivi si espansione territoriale o difesa, non per motivi religiosi; non furono, ad esempio, “guerre giuste” la “guerra dei tre Enrichi” in Francia o il conflitto religioso anglo-spagnolo del 1588, mentre fu “giusta”, ovvero “giustificata”, la guerra dei cent’anni combattuta da Enrico V di Francia di cui ci parla Shakespeare nell’omonimo dramma, in quanto mirava a riconquistare territori francesi ingiustamente ‘strappati’ dall’Inghilterra con un appiglio di natura dinastica.

 

6.Spionaggio e teologia nel Cinquecento anglo-veneto (Dott. D. Pirillo, ricercatore, Scuola Normale Superiore di Pisa).

Fra’ Paolo Sarpi ebbe fortuna in Inghilterra perché fu il grande ‘smascheratore’ del concilio tridentino; grazie alla sua amicizia con il cardinale Bellarmino, poté leggere gli atti del Concilio, ma l’opera di Sarpi fu sottoposta a rigido controllo da parte della curia romana. Gli atti del Concilio di Trento, conclusosi nel 1563, solo ufficialmente pubblicati dal Vaticano soltanto nel 1901. Tuttavia tali atti circolavano segretamente in Inghilterra.

Pietro Carnesecchi, sospettato di eresia, fu un altro che diffuse i segreti della teologia del concilio tridentino; Carnesecchi aveva amici con ambasciatori che incontrava la mattina, a Venezia, sotto le logge di San Marco.

Anche Giudo Giannetti fu un’altra spia del concilio a favore della corte elisabettiana, tutto ciò nonostante la censura ecclesiastica; Giannetti fu un attento lettore delle opere di Erasmo, More e Machiavelli; lesse infatti L’elogio della follia, L’utopia, Il principe. Negli scritti di Giannetti emergono infatti queste letture, che destarono sospetti. Infatti Giannetti informava la regina Elisabetta tramite l’ambasciatore inglese Richard Blake. Insieme ad altri principi protestanti, Elisabetta era stata invitata al concilio, come uditrice, ma aveva sdegnosamente rifiutato. Giannetti, ad esempio, informò la regina su un decreto del concilio, emanato nella terza ed ultima delle sue fasi, riguardante la comunione.

Giannetti paragonò il concilio di Trento ad un lupo che il papato teneva per le orecchie, ma senza possibilità di addomesticarlo, “poiché il lupo non è una lepre, che si tiene facilmente e senza pericolo per le lunghe orecchie”. Giannetti riprende questa terminologia da L’elogio della follia di Erasmo. Giannetti conobbe Carnesecchi, con il quale collaborò nelle operazioni di spionaggio, e conobbe anche luterani e calvinisti.

I Valois intendevano esercitare pressioni su Roma e proposero al concilio un documento di riforma religiosa: Giannetti informò immediatamente la corona inglese di questo.

Nel 1566 s’interrompe la corrispondenza di Giannetti con l’Inghilterra: accusato di eresia ed arrestato, si salvò con l’abiura, ma morì in carcere, ove trascorse il resto della sua vita.

Paolo Vergerio fu un altro informatore di Elisabetta, e le comunicò, ad esempio, della riapertura del concilio nella sua terza fase, quella conclusiva, notificandole anche che i dissidi per la scelta della sede dei lavori conciliari erano dovuti a contrasti all’interno dei cattolici.

Venezia è quindi un grande centro di spionaggio del secondo Cinquecento ed un ostello abbastanza sicuro per molti eretici; molte spie s’incontravano nelle chiese e si scambiavano segreti nei confessionali.

 

7.Bacone e le favole antiche (Prof. ssa S. Bassi, ordinario di Storia della filosofia dal Rinascimento all’Illuminismo, Università di Pisa).

L’interesse di Bacone per le favole antiche è stato scoperto nel ‘900. Prima, ad esempio, un’opera come il De sapientia veterum (un complesso di 31 favole allegoriche nelle quali l’autore contrappone, prediligendola, la fisica materialistica democritea alla metafisica di Platone e di Aristotele, definiti entrambi “miserabili sofisti”) era considerata un’opera letteraria, e non filosofica. Gli studi di Paolo Rossi hanno fatto scoprire Bacone come un filosofo della natura, anticipatore della filosofia della scienza in età moderna. Due punti di riferimento della filosofia di Bacone furono sicuramente Telesio e Bruno: Bacone studia le favole antiche proprio grazie agli stimoli bruniani.

Poesia, storia e ragione si trovano fuse nella poesia stessa, che precede la ragione, come le favole precedono le interpretazioni. Nelle favole, secondo Bacone, in forma allegorica si ritrovano grandi verità filosofiche. Tali tesi avranno fortuna in Vico, nel De nostri temporis studiorum ratione (1708). In numerose favole si nasconde un significato allegorico che cela lo stretto nodo concettuale tra poesia e ragione, immaginazione e filosofia, come negli stessi poemi omerici, in cui sono raccolte favole ben più antiche di Omero e che costituiscono il substrato culturale del tempo in cui sono state prodotte. Enigmi e similitudini, nell’antichità, non occultano, ma ingannano: la favola è una ‘poesia parabolica’ che non può essere oggetto di singoli uomini, ma frutto della cultura di interi popoli.

Garin tuttavia sottolinea una certa mancanza di originalità di Bacone, che, ad esempi, usa Montaigne molto spesso, pur citandolo una sola volta, così come attinge da Pico, Bruno, Telesio, Erasmo, Machiavelli.

La natura, scrive Bacone, è la manifestazione di Dio nello spazio, riprendendo quasi letteralmente il Bruno del De umbris idearum, in cui si legge che Dio è nelle cose e nella natura.

Nel De sapientia veterum Bacone riprende il mito di Orfeo e di Euridice, con il quale distingue due settori della filosofia, quella naturale e quella civile-morale, operazione già compiuta da Bruno.

Stretti furono anche i rapporti tra Bacone e Ficino: nel Novum Organum Bacone tratteggia la figura del nuovo scienziato come antitetico al mago rinascimentale incarnato da Ficino. Da Ficino e da Bruno, Bacone riprende la concezione dell’amore come spinta verso l’infinito, appunto “eroico furore”, come emerge in Degl’eroici furori e nel commento al Simposio platonico presentato da Ficino nel De amore.

Nel Novum Organum Bacone affronta anche il tema della carità, riprendendo quasi letteralmente quanto sostenuto da Ficino nel De vita, ove si legge che “per carità i medici allontanano le malattie” o che la carità si trova anche negli animali.

 

SAB. 12/12 (TERZA GIORNATA).

1.Giordano Bruno in Germania (Dott. ssa I. Russo, ricercatrice, Scuola Normale Superiore di Pisa).

Bruno si reca in Germania e si reca in diverse città tedesche, come Magonza, Marburgo, Wittemberg, Francoforte, senza scrivere opere fondamentali. E’ docente a Wittemberg ed a Francoforte, vive in Germania alla fine degli anni ’80 del Cinquecento.

A Wittemberg Bruno pubblica il De progresso, dedicato allo studio della logica di Aristotele, in particolare alle Categorie ed all’Organon. Bruno critica i “presuntuosi grammatici ed i loro escrementi”, che dimostrano soltanto la loro ignoranza. I grammatici hanno obbedito ciecamente al principio di autorità dello stagirita, fraintendo, secondo il nolano, anche quegli aspetti più proficui del pensiero di Aristotele. A Wittemberg pubblica anche scritti sull’arte lulliana della memoria, frutto delle sue lezioni, l’Ars divinatoria lulliana. Fu, per Bruno, il periodo di Wittemberg, importante per la messa a fuoco di idee che troveranno sviluppi nelle opere successive; critica aspramente il De coelo e le opere di Fisica, mentre elabora già l’idea di un universo infinito.

Bruno, in Germania, in parte critica ed in parte rilegge lo stagirita, ed a Wittemberg in particolare intende portare a compimento i lavori lasciati incompiuti nel suo precedente soggiorno a Parigi, ma riuscirà solo parzialmente nel suo intento. Per il nolano è insostenibile la separazione aristotelica tra materia e forma, come è insostenibile l’idea di far dipendere la fisica o “filosofia seconda” dalla metafisica, che il “maestro di color che sanno” chiamava invece “filosofia prima”. Bruno sostiene tutto è riducibile alla materia in  movimento e, a riguardo, critica la concezione aristotelica del movimento, attribuita dallo stagirita a sole 4 categorie (sostanza, quantità, qualità, relazione); il movimento, per Bruno non è un elemento imperfetto, “potenziale”, come aveva scritto Aristotele.

In seno all’università di Wittemberg, Bruno contrae alcune amicizie, che in parte lo seguiranno nelle sue future peregrinazioni (una anche a Padova, nel 1591) e s’illude che Wittemberg possa essere il crogiuolo per lanciare un rinnovamento della filosofia, libera dai dogmi e dai pregiudizi di matrice ecclesiastica, ed un rinnovamento delle università che porti ad affidare le cattedre ai sapienti, e non ai dogmatici, ma non sarà così.

 

2.Giordano Bruno a Praga: tra lullismo, geometria e filosofia (Dott. M. Matteoli, ricercatore, Scuola Normale Superiore di Pisa).

Giordano Bruno soggiorna a Praga per soli 6 mesi, ma sono mesi importanti per la messa a fuoco di elementi mnemotecnici, ma anche politici, volti a tentare, sia pure di fatto invano, un rinnovamento dei sistemi di governo dei sovrani europei, quale Rodolfo II d’Asburgo, un fervente cattolico, o Elisabetta d’Inghilterra.

Per Bruno la politica deve garantire e promuovere la libertà di ricerca.

A Praga il nolano tenta una conciliazione con il mondo cattolico, dato che aveva incontrato forti ostilità anche presso i protestanti, ma non riuscirà nel suo intento: in quest’ottica studia la mnemotecnica lulliana.

Si dedica poi allo studio della geometria euclidea, sulla quale scrive un’opera di 160 articoli contro i matematici tradizionali; studia anche la tradizione magica e cabalistica.

La notizia della morte del docente di matematica dell’università di Padova sarà in seguito uno dei motivi che spingerà Bruno a tornare nella roccaforte dell’aristotelismo, con l’intento, anche questo fallimentare, di sostituirlo in cattedra. Tuttavia l’opera bruniana sulla matematica presenta omissioni e trascuratezze, segno del fatto che gli articoli sono stati scritta di fretta. Per Bruno la geometria è in stretto nesso con la fisica e la materia (ritiene gli atomi ancora indivisibili e rappresentabili con dei punti, come Pitagora e Democrito), concetto già espresso nel De umbris idearum.  La geometria astratta per Bruno non ha senso, dev’essere posta al servizio della natura, come la filosofia dev’essere al servizio della vita. Bruno accenna anche ad una teoria della luce, intesa come una forza animata, mossa da una sorta di ‘anima del mondo’, costituita di corpuscoli capaci, a loro volta, di infondere movimento alle cose.

Fin dal tempo dei Dialoghi italiani, Bruno mostra conoscenze matematiche apprezzabili: per quanto apprezzasse la matematica ramista, Bruno era distante da Ramo, “servo del calvinismo ginevrino e francese” (Ramo era tuttavia arrivato alla cattedra di matematica perché non aveva potuto ottenere quella di metafisica).

Più vicino si mostra invece a Francesco Patrizi da Siena: in Patrizi, Bruno vede l’iniziatore di una nuova geometria, che tenti di coniugare punti e figure in uno spazio fisico concreto. Ma Bruno va oltre Patrizi: per lui la geometria è il punto di partenza per una nuova filosofia, la geometria è quindi strettamente connessa a quella ‘filosofia della vita’ tanto cara a Bruno. Patrizi restituisce lo spazio alla materia, nel senso che lo spazio viene prima della materia, mentre per Bruno spazio e materia s’identificano.

 

3.Giordano Bruno e il ritorno della metafisica a Zurigo (Dott. M. Lamanna, ricercatore, Scuola Normale Superiore di Pisa).

Durante l’età della Riforma si assiste ad una profonda crisi della metafisica, che, grazie a Lutero ed a Filippo Melantone, suo grande collaboratore (l’autore della Confessio augustana), non può più essere considerata scienza, né in grado di produrre conoscenza. Si smonta così la teologia razionale.

Nei ginnasi riformati della Germania la metafisica non era addirittura più materia di insegnamento, come ad Erfurt (la città ove Lutero aveva compiuto i suoi studi universitari), Basilea, Wittemberg (il luogo ove sempre Lutero aveva affisso le sue 95 tesi), Francoforte.

Una posizione meno netta sulla metafisica era invece stata assunta da Zwingli e da Calvino che, a differenza di Lutero, non delegittimano lo status epistemologico del termine “metafisica”, in quanto l’uomo, per Calvino, ad esempio, è dotato di un’ ”intrinseca divinità”.

Ma dopo Lutero, gli stessi luterani ritengono che non sia possibile parlare di teologia senza far ricorso al lessico metafisico; i gesuiti, ovviamente, spinsero in questa direzione.

Riprendono anche gli interessi verso Aristotele, il De anima (che tanta diatriba aveva acceso tra i filosofi ed i teologi dall’antichità all’Umanesimo) inizia a circolare tra i protestanti: Melantone, per esempio, commenta il De anima e definisce il corpo umano “quasi come macchina”.

Bruno, ad esempio, quando è a Wittemberg, fa sempre più ricorso al termine aristotelico “entelecheia”, ma rifiuta ancora la dizione “metafisica”.

Quando Bruno si trasferisce a Zurigo viene invitato a tenere lezioni di metafisica; l’insegnamento della metafisica era infatti stato molto ridimensionato. Bruno rivaluta, a Zurigo, sia pure a modo suo, la metafisica, che insegna. Insieme alla metafisica, a Zurigo, si diffonde anche la matematica ramista.

Nella metafisica Bruno cerca un confronto con la Scolastica tomista, al fine di utilizzare il tomismo per dare fondamento alla sua filosofia, ma in parte stravolge la Summa theologiae di Tommaso. Resta invece fortemente critico verso la neoscolastica dei suoi tempi, rappresentata in primis da Francisco Suarez. Bruno riduce le differenze della metafisica tomista facendo ampio uso di sinonimi (la sinonimia era diffusa ai tempi di Bruno ed avrà ampia fortuna in Germania fino all’Illuminismo di Christian Wolff e di Immanuel Kant): ad esempio, identifica “tutto” e “nulla”, inserendo il “nihil” nelle categorie della metafisica.

Bruno vuole, in realtà, a Zurigo, rifondare la metafisica sulla fisica, e non sulla logica, come stava facendo la neoscolastica a lui contemporanea, ed interpreta la teologia come panteismo, naturalismo, tesi che sarà ripresa da Spinoza.

In Dio coincidono sostanza generante e sostanza generata, che diventano sinonimi, come immanente e trascendente, il trascendente viene ridotto al reale, conoscibile con i sensi: Dio, l’Ente, è quindi ciò che appare ed è conoscibile con i sensi (De la causa, principio et uno, in Dialoghi italiani).

 

4.Che direbbe Aristotele? Usi del filosofo tra Galileo e l’età confessionale (Dott. ssa E. Del Soldato, ricercatrice, Scuola Normale Superiore di Pisa).

Aristotele è definito, nell’ Inferno dantesco, “maestro di color che sanno”; è stato, nel Rinascimento, interpretato e stravolto, e probabilmente nel Cinquecento non avrebbe trovato mecenati.

Venne innanzitutto utilizzato da Martin Lutero per contestare gli aristotelici neotomisti che avversavano la Riforma.

Ma quello che maggiormente lo ha utilizzato è stato Galileo nel secolo successivo: scrive che “Se Aristotele fusse dell’età nostra, certamente muterebbe opinione”, riguardo alla fallacia del sistema geocentrico ed alla verità di quello copernicano.

Copernico e Kepkero avevano già utilizzato Aristotele in proposito.

Galileo si difese dalle accuse mosse dai teologi utilizzando lo stesso Aristotele, del quale apprezzava lo spirito empirico; affermò che se Aristotele fosse vivo e avesse avuto il telescopio, nel quale non si sarebbe certo rifiutato di guardare, “prenderebbe me tra i suoi discepoli” e si sarebbe convinto della corruttibilità dei cieli, a differenza di quei “poveretti di cervello” (cfr. Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo), ovvero gli aristotelici della neoscolastica del suo tempo. Si sarebbe ricreduto anche sul numero dei cieli.

All’ “Ipse dixit” del principio aristotelico di autorità, con abilità retorica ed ironia al tempo stesso, Galileo sostituì il valore dato dallo stesso Aristotele al metodo empirico, lodando, al tempo stesso, le capacità razionali dello stagirita.

Ma gesuiti come soprattutto Sheiner e neoscolastici come Rocco osteggiarono Galileo.

Il gesuita Corneus, avversario della teologia protestante, difese invece Galileo. Papista e cattolico, per Corneus, s’identificano, ed il pericolo, per il cattolicesimo, è nel luteranesimo, non in Galileo. E’ nota, d’altra parte, la forte polemica dello scienziato con i luterani, che sostenevano infallibile l’Auctoritas non di Aristotele, ma delle Scritture.

Tra Cinquecento e Seicento Aristotele venne quindi usato da varie parti, ognuna per raggiungere i suoi scopi.

 

5.Sogni, edizioni, allusioni: Machiavelli a Basilea (Dott. P. Terracciano, ricercatore, Scuola Normale Superiore di Pisa).

Jolly, nell’Ottocento, ha scritto un saggio su Machiavelli e Montesquieu, il primo simbolo della forza, il secondo del diritto: il confronto tra i due è andato a vantaggio del secondo e questo ha contribuito a collocare Machiavelli “all’inferno”. Le opere di Machiavelli vennero messe all’Indice, combattute anche da Botero (Della ragion di Stato) e dalla Controriforma ed un tale giudizio su Machiavelli come cinico amico dei tiranni prosegue fino al Novecento. Machiavelli stesso era consapevole della sua mancata fortuna.

E. Binet (La sulut de Origéne, Paris, 1629, pp. 359-61) riporta che Machiavelli, prima di morire, fece un sogno, nel quale affermò di preferire l’inferno della “verità effettuale” alle ipocrite bugie edulcorate della religione.

A Basilea, nel 1580, si ritrovano le prime testimonianze su Machiavelli: le opere del politico fiorentino sono condannate perché blasfeme e contrarie alla religione riformata. Quindi Machiavelli è condannato sia dai cattolici, in primis dai gesuiti, che dai calvinisti. Per accusare Machiavelli di blasfemia si fa anche riferimento alla Favola di Belfagor Arcidiavolo, nella quale il diavolo Belfagor si reca sulla terra per constatare se veramente i mariti sono vittime delle mogli, e dopo dieci anni di matrimonio con una fiorentina, preferisce tornare all’inferno. La predilezione di Machiavelli per l’inferno è quindi ricorrente, come afferma Pierre Bayle, il noto studioso delle comete, nel ‘600 e come nota, in tempi più recenti, Gennaro Sasso.

Per i cattolici, Machiavelli nega la teodicea, per i calvinisti i seguaci dello statista fiorentino sono “omuncoli” ai quali è doveroso contrapporre i grandi della classicità, come Cicerone. Anche Wolf, editore ed orientalista del tardo ‘500, “libraio” dei grandi banchieri Fugger, presenta quest’immagine negativa di Machiavelli.

Nel ‘600, i libertini francesi affermano che è meglio stare all’inferno “con re, imperatori e principi” piuttosto che in paradiso, ove troviamo solo “poveri, mendicanti e storpi”. Questo afferma anche Fabrizio Flamini nel 1590.

I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio ebbero fortuna presso i gesuiti spagnoli  portoghesi, che trovarono in tale opera la giustificazione per la colonizzazione degli indios ed il loro legittimo sterminio in quanto “homuncoli”, come afferma il filosofo razzista aristotelico Juan Ginés de Sepùlveda nel Trattato sopra la giusta causa della guerra contro gli indi, riprendendo così una categoria usata dai calvinisti francesi difensori di Machiavelli. In antitesi a Sepùlveda, il frate Bartolomeo de Las Casas affermerà di preferire l’inferno degli “homuncoli” al paradiso dei re.

 

6.Machiavelli, Guicciardini e le illusioni della diplomazia polacca (Dott. ssa V. Lepri, ricercatrice, Università “Artes Liberales” di Varsavia, Polonia).

La Polonia di fine ‘500 è uno Stato solido e tollerante sul piano religioso; è una monarchia elettiva ed il potere del re è quindi limitato, non più assoluto, come quando era invece nato lo Stato di Polonia, nel 1410 (con la battaglia di Tannemberg, nella quale la nobiltà polacca si libera dal dominio dell’impero germanico sconfiggendo i cavalieri teutonici), con la nobiltà degli Jagelloni.

Fin dalla nascita dello Stato di Polonia, forti sono i rapporti con l’Italia, dalla cucina italiana, che viene importata, al socinianesimo (i Socini erano una famiglia di riformatori protestanti italiani vicini al luteranesimo).

Negli ambienti diplomatici polacchi si leggono Platone, Aristotele, ma anche Machiavelli e Guicciardini. Guicciardini è, per la Polonia e l’intera Europa, un brillante diplomatico. La sua Storia d’Italia (è molto studiato l’importantissimo “Proemio”) arriva in Polonia grazie alle traduzioni latine.

La grandezza del sovrano, scrive Machiavelli nel XXII capitolo de Il principe, si vede dalle persone che sceglie come collaboratori: questa è la più importante lezione politica machiavelliana fatta propria dalla diplomazia polacca.

Anche la concezione della religione come “instrumentum regni” penetra in Polonia, ma solo per quanto concerne la politica estera, in cui la diplomazia polacca auspica un’alleanza con l’Italia, cattolica, in funzione antiottomana, come sostiene il re di Polonia Sigismondo III.

Anche Guicciardini viene interpretato in Polonia in funzione antiturca, per quanto concerne l’idea di un sistema di repubbliche indipendenti, ma pronte ad unirsi in caso di necessità.

Oltre ai due politici fiorentini, anche Paolo Giovio, tra i contemporanei, e Tacito e Seneca tra i classici, costituiscono le letture della diplomazia polacca: è il caso di Fredro, giovane nobile diplomatico polacco che vive in Italia, soggiorna a Napoli, studia il latino.

 

7.”Uomini di pensiero e di fede”. Migrazione intellettuale e circolazione delle idee in Benedetto Croce (Dott. S. Carannante, ricercatore, Scuola Normale Superiore di Pisa).

Benedetto Croce interpreta l’incontro, avvenuto a Ginevra, tra Francesco Caracciolo, napoletano, e Giordano Bruno, nolano: entrambi sono scampati al rogo (Bruno solo temporaneamente, come sappiamo) ed entrambi costituiscono, per Croce, due pilastri del rinnovamento della Rinascenza e dell’età moderna (cfr. B. Croce, Teoria e storia della storiografia). Caracciolo e Bruno non sarebbero però consapevoli dell’importantissima funzione da loro svolta: gli italiani, afferma Croce concordando con Bertrando Spaventa, poterono contribuire a formare l’anima moderna, ma solo lasciando la loro patria, l’Italia, emarginata dall’azione della Controriforma e dalla dominazione spagnola (cfr. B. Croce, Storia dell’età barocca); l’Italia, scrive Croce, “ma non gl’ italiani”.

L’incontro tra Bruno e Caracciolo, nota Croce, avviene a Ginevra, patria del calvinismo, che per il filosofo neoidealista rappresenta la variante più matura del cattolicesimo. “Il congiunto governo di preti e degli spagnoli” ha causato la decadenza della penisola italiana tra ‘500 e ‘600, lasciando agli intellettuali l’unico spazio della fuga, che “non è peccato”, non è ricerca di una vita più agevole, ma è anzi “perdita di tutti i comodi” per la libertà di coscienza. In questo contesto di oppressione culturale, continua Croce, è anche difficile che in Italia sorgano menti come Bacone, Cartesio, Hobbes, Locke, Spinoza, Leibniz, a differenza di quanto avviene in Inghilterra, Francia e Germania.

Bruno e Caracciolo rappresentano due di queste luminose menti, emblema di un mondo moderno e laico che in Italia non si trova. Caracciolo, un credente, Bruno, un panteista, sono, nell’interpretazione crociana, due “menti sublimi”, Bruno soprattutto.

Il marchese di Vico, per Croce, ha contribuito a questo rinnovamento abbracciando la Riforma, da nobile veramente illuminato qual era, poiché proprio i Paesi riformati offriranno agli intellettuali il luogo per la loro libera espressione, nonostante le critiche bruniane al Protestantesimo.

Italia ed Europa tra Rinascimento e prima età modernaultima modifica: 2015-12-13T22:51:47+01:00da m_200
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