L’uomo e la morte

 

Marco Martini            L’UOMO E LA MORTE

 

 

[Paul Gauguin – Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?]

 

INDICE

  • Premessa…………………………………………………….p.2
  • Le modalità di approccio alla morte…………………………p.2
  • L’evento-morte………………………………………………p.3
  • L’assurdo della vita umana………………………………….p.4
  • Suicidio o Speranza?………………………………………………………p.5
  • Bibliografia……….………………………………………….p.6

 

 

 

 

PREMESSA

Non ho la presunzione di imitare, nel titolo di questa mia breve dissertazione, il noto saggio dello storico e pedagogista Ariès inerente il rapporto tra l’uomo e la morte dal Medioevo a oggi, quanto invece riflettere sul più profondo significato del “nulla”. In questo senso trova la motivazione il noto dipinto di Gaugin sopra riproposto. Mi sono infatti sempre chiesto se la nostra vita abbia un senso. I latini erano soliti dire “Faber est suae quisque fortunae”, tradotta letteralmente significa “Ciascuno è artefice della propria sorte”, ma è proprio così? Non abbiamo risposte, viviamo nell’incertezza, ma la curiosità è troppa. La comparsa della bomba atomica e la dimostrazione del suo terribile potenziale distruttivo hanno fatto emergere significativamente il senso d’angoscia esistenziale che permea la vita d’ogni uomo, la percezione della negatività della condizione umana nel mondo e la consapevolezza della finitudine della vita intesa come una successione limitata d’eventi: la nascita, la lotta, il patimento, il passare del tempo e la morte.
L’uomo, allora, è portato ad interrogarsi sulla sua posizione in questo mondo dominato dall’opacità, dall’ingiustizia e dal terrore della distruzione; dalla riflessione sull’esistenza nasce la filosofia esistenzialistica che caratterizzerà il clima culturale nel periodo fra le due guerre e nel secondo dopoguerra.
Ho deciso quindi di analizzare la condizione in cui si trova l’uomo contemporaneo, un uomo in cerca di verità a lui inaccessibili oggi proprio come milioni di anni or sono. Essendo una tematica impegnativa e di ampio respiro ho ripreso le idee di tre grandi pensatori del secolo scorso quali Jean-Paul Sartre, Albert Camus e Vladimir Jankélévitch per dare forma ai dogmi centrali del nostro tempo: la morte e il senso della vita.

LE MODALITA’ DI APPROCCIO ALLA MORTE

In primis il filosofo rifiuta di adottare l’opinione classica secondo la quale la filosofia consisterebbe proprio nell’imparare a morire: questa è una cosa che non si può insegnare, così come non si può imparare ad amare, volere, iniziare.  Il compito della filosofia non consiste nello spiegare ma nell’accettare questo paradosso.
Ma per l’essere umano è difficile accettare passivamente il suo destino di annullamento, così estraneo alle nostre possibilità di esperienza; sapendo che moriremo e non avendo alcuna esperienza diretta di ciò che significhi morire, non possiamo fare a meno di tentare di “riempire” questa certezza, vuota di un qualsiasi contenuto sperimentabile direttamente. “E’ morto un tale. Che è avvenuto? Nulla forse e forse tutto. Forse nasce il dolore di un paio d’ore, forse di giorni, forse di mesi, ma poi tutto si placa e la vecchia vita continua.  La scelta di Jankélévitch di dedicare un’intera opera alla morte può forse illuderci che egli conosca le risposte giuste, ma coerentemente alla sua personalità filosofica, egli ammette di non conoscerle, e decide di dedicarsi a tale concetto al solo fine di liberare la nostra mente dalle tradizionali panacee che ci hanno sempre impedito di vedere la morte per quella che é: qualcosa di inconoscibile, di ineffabile. Anche riguardo all’evento-morte, la molteplicità di approcci possibili ad essa costituisce una garanzia di evoluzione interpretativa, escludendo ogni possibile rischio di statica definizione.  Esso infatti consiste in un avvenimento estremamente naturale e quotidiano, tanto che viene seguito e coordinato da settori come la fisica, la giurisprudenza, la biologia e la sociologia. Al tempo stesso però, è l’evento che ci mette in contatto con l’al di là, e dunque di competenza anche della religione e non solo della scienza. Entrambe queste alternative hanno favorito, secondo il filosofo, un approccio falsato e approssimativo alla morte, che incentiva i malintesi al fine di rassicurarci tutti.
La maggiore difficoltà che l’uomo incontra nel gestire la “questione morte” è costituita appunto dall’insopprimibile riluttanza a credere che essa riguardi anche l’individuo che ha la facoltà di pensarla. Possiamo facilmente credere che Caio possa morire, che l’umanità intera possa farlo, ma non noi, non io che sto battendo su questa tastiera, non io che ho un passato, dei ricordi, dei pensieri solo miei che morirebbero con me.
Pensiamo di essere preparati alla morte perché la osserviamo ogni giorno, da sempre, presentarsi accanto a noi, ma essa riesce sempre a sorprenderci, a causa del fatto che ne possiamo sopportare solo una coscienza discontinua. Solo in punto di morte si realizzeranno le tre circostanze, ovvero effettività, imminenza e coinvolgimento personale, che ci obbligheranno a crederci davvero, a realizzare che essa non è solo un incidente comune che capita agli altri, ma la catastrofe assoluta e definitiva che spegnerà ogni parte del nostro essere. Con il passaggio alla prima persona si realizza la vera presa di coscienza della fine imminente, che si profila come sciagura solitaria e personale, pensabile comunque solo a distanza perché quando essa irromperà, divorerà la mia capacità di osservazione e giudizio, oltre a tutto il resto di me. La morte e la coscienza si escludono a vicenda, non possono coesistere, se vogliamo analizzare la morte necessitiamo di una seconda persona, uno spettatore attraverso il quale Jankélévitch analizzerà secondo la cronologia temporale i tre aspetti sotto ai quali possiamo studiare l’evento-morte, ovvero la morte al di qua della morte, l’istante della morte e la morte al di là della morte.

L’EVENTO-MORTE

Tra l’Io che pensa la morte in assenza di essa, e la Morte avvenuta che non può essere pensata perché non esiste più nessun Io che possa farlo, incontriamo un momento intermedio costituito dall’Istante mortale. L’istante mortale si riduce in realtà ad un evento elementare, un semplice accadere effettivo privo di contenuto narrabile. Ed ecco stabilito che non ci può essere, non solo filosofia, ma neanche percezione e coscienza riguardo alla soglia mortale; l’istante più definitorio della nostra esistenza ci sfugge completamente, e prendere coscienza di questo fatto significa ammettere che la frattura tra il vivo e il morto è irrimediabile e assoluta.
Esattamente al fine di negare questa terrificante prospettiva, le varie civiltà che hanno abitato il mondo sono sempre state accomunate dalla celebrazione ritualizzata del trapasso: la liturgia funebre crea infatti intorno alla morte una serie di apparati sui quali sentiamo di avere potere e conoscenza, dissimulando l’inafferrabilità di ciò che viene celebrato, reso statico e perenne. L’istante impercettibile e nudo viene ricoperto e arricchito di fasti, solennità, gloria e maestosità; se ne celebra la ricorrenza per rendere partecipe del calendario mondano e ripetitivo dell’al di qua, un evento che non avrebbe con esso, e dunque con noi, alcuna parentela o connessione. L’istante mortale elude evidentemente ogni concettualizzazione, eppure la tentazione di categorizzarlo è irresistibile, perché solo così potremmo riuscire nell’intento tanto agognato di pensarlo e, forse,comprenderlo.
La sua inconoscibilità viene dimostrata in prima istanza dalla sua estraneità alla categoria della quantità.
La verifica si svolge a partire dal concetto di limite, in quanto la morte rappresenta il termine estremo di ogni esperienza: se essa non si stagliasse dinanzi a noi con la sua minacciosa presenza, non esisterebbe appunto nulla di minaccioso, o pericoloso, o ancora temibile. L’esistenza di caratteristiche come il coraggio, l’eroismo e il tragico, è resa possibile esclusivamente dalla nostra condizione di mortalità: se fossimo imperituri come gli angeli, non avremmo motivo di avere paura del tempo e della malattia, e non saremmo d’altro canto stimolati al sacrificio e all’avventura. Come può, infatti, essere avventurosa una vita eterna? Cosa ci scuoterebbe dalla monotona e soffocante serenità durante un’eternità senza nubi? Conosciamo il pericolo perché è la morte a renderlo tale, e nell’atto eroico di sfidarlo non ci sarebbe niente di serio, se non ci fosse niente di vitale da rischiare. Non esiste, però, proporzione possibile tra la grandezza dei nostri atti mortali, e l’infinita vastità di una morte eterna, pertanto il limite che separa la vita dalla morte non è equiparabile a nessun altro limite.
Jankélévitch affronta in secondo luogo la possibilità che il suddetto istante appartenga allora alla categoria della qualità. Se infatti la morte costituisce una mutazione, ovvero un cambiamento di stato, potrebbe allora denotare un salto qualitativo caratterizzato dall’alterazione: la giustezza di tale teoria appagherebbe inoltre la fiducia spontanea che riponiamo nel Principio di Conservazione, secondo il quale nulla si distrugge, nulla si crea e tutto si trasforma. Ma se la morte rappresenta un passaggio dall’essere al non-essere, ovvero una nichilizzazione totale di tutto ciò che costituiva l’individuo, difficilmente potrà essere equiparata ad un cambiamento di stato, proprio perché essa annulla e distrugge ogni caratteristica appartenente allo stato precedente.
Il filosofo continua la sua analisi osservando che la morte non è determinabile neanche dal punto di vista cronologico e topografico, anche se ad uno sguardo superficiale sembrerebbe possibile: essa sopraggiunge infatti in una data che, per quanto sconosciuta, una volta giunta è comunque certa e definitiva, così come il luogo nel quale la incontriamo. Ma a partire da questo istante la durata sarà sostituita da un’eternità priva di momenti ed eventi e, dove poco fa esisteva qualcuno, ora c’è solo qualcosa, manca cioè l’elemento che ne costituiva l’essenza, e che adesso sembra svanito nel nulla.
A conclusione di questo tentativo di categorizzare l’istante mortale, Jankélévitch esclude definitivamente la possibilità di una concettualizzazione di esso, allontanando ulteriormente la possibilità per il lettore di acquisire un minimo di conoscenza positiva sull’argomento trattato.  Ogni filosofia che si proponga di garantire un’esistenza positiva dopo la morte, è dunque tenuta necessariamente ad escludere l’istante finale dalla sua trattazione: Jankélévitch rintraccia un caso esemplare di ciò nella filosofia di Platone, fiduciosa nei confronti di un aldilà sereno, e dunque costretta ad escludere l’analisi degli ultimi istanti vitali di Socrate, perché necessariamente tragici. L’armonia del testo e della dottrina sarebbe irrimediabilmente turbata dall’irrompere della soglia avventurosa e angosciosa dell’istante: Platone teme fortemente il suo avvento, perché esso stride con la figura del Saggio e la dimostrazione di serenità e tranquillità che egli è tenuto a porgere per restare coerente e credibile. Nel Fedone la morte non arriva mai, infatti Socrate non resta mai solo, e non smette mai di parlare con ironia e leggerezza, ignorando il tempo che scorre e l’angoscia che avanza.
Esiste anche un altro modo di ignorare la morte, ed è quello utilizzato dagli asceti: essi fanno della propria vita una morte perpetua, un fenomeno incessante che nella sua ripetitività diventa quasi banale: equiparando la continuazione alla cessazione, il vivente realizza la morte nella vita, così che quando essa arriva ha ormai perso ogni carattere di eccezionalità e solennità.

“Non si muore che una volta, ed è finita per sempre! Capite cosa significano queste tre sillabe: per sempre? La ragione lo concepisce senza fatica, e tuttavia non si è capaci di realizzare questo pensiero, cioè prenderlo sul serio, senza tremare.”

L’ASSURDO DELLA VITA UMANA

L’uomo si ritrova dunque faccia a faccia con un destino a cui non può opporre resistenza, un destino che “Qualcun altro” ha scelto per lui. Se da un lato non può decidere di non morire, il suo nuovo imperativo categorico è quindi dare un senso alla propria vita.
Secondo Sartre, massimo esponente dell’ “Esistenzialismo” francese, l’uomo scopre di essere stato gratuitamente gettato nel mondo, nel senso che si trova a esistere senza averlo scelto e senza comprenderne il senso; è lì, e deve essere qualcuno, il che significa che deve diventare qualcuno che non è ancora. Di fronte ai pericoli del mondo, quando è ancora bambino, l’uomo si difende attraverso la fantasia e l’immaginazione così da trascendere la realtà che lo circonda. Divenuto adulto, Sartre distingue due fasi del suo essere: la fase “In sé” e la fase “Per sé”.
Durante la prima fase l’uomo è prigioniero passivo di una realtà opaca, casuale, estranea a lui.
La seconda fase è invece caratterizzata dal distacco della coscienza la quale rifiuta di interagire con una realtà in cui non si riconosce.
L’esistenza dunque fa maturare nell’uomo tre sentimenti principali: la nausea, l’angoscia e la vergogna.
La coscienza resta sospesa sul baratro del Nulla; avverte l’assurdità dell’esistenza umana e la sua mancanza di senso. L’esito di tale sensazione è la nausea per l’opacità e la banalità della vita quotidiana, una sorta di sazietà e senso di rifiuto nei confronti della vita stessa, una reazione all’assurdità del mondo.
L’angoscia nasce dalla libertà dell’uomo, libertà da cui è impossibile liberarsi. Sartre accentua la dimensione progettuale della libertà che non è più vista come indifferenza nelle scelte, ma come responsabilità assoluta delle azioni del soggetto. L’uomo sarà quello che si era progettato d’essere, quindi totalmente responsabile di quello che è e di quello che sono gli altri. La libertà, quindi, comporta che l’uomo si realizzi solo nell’agire, assumendosi la totale responsabilità per tutto quanto accade nel mondo a causa delle sue scelte.

“L’uomo, essendo condannato ad essere libero, porta il peso del mondo  intero sulle spalle: egli è responsabile del mondo e di sé stesso”

Nell’agire, però, l’uomo non è mosso dalla speranza, bensì dalla disperazione di trovarsi gettato nel mondo. La disperazione nasce dal fatto che ciascuno non può contare che su sé stesso, sul proprio progetto e sull’impegno a realizzarlo, e questo genera in lui una forte angoscia.
L’uomo è destinato sin dalla nascita a vivere con gli altri, è contenuto di progetti altrui. Per questo, sorge un’emozione nuova nel rapporto con gli altri che è la vergogna: siamo oggetto dello sguardo altrui e ce ne vergogniamo.  Questo sguardo viene vissuto con angoscia, come “centro universale da cui non si può evadere” e porta a considerare l’altro come un antagonista, un pericolo: “sono visto” perciò io sono vulnerabile. Sartre giunge ad affermare che l’altro è l’inferno.
Il rapporto con gli altri propone due passioni opposte: l’amore e l’odio. Con il primo, l’uomo cerca di farsi amare, si aliena da sé stesso, ma, nello stesso tempo, egli nega la libertà altrui perché vede l’altro come realizzazione dei suoi scopi. Tramite l’odio si prende atto che l’altro è libero e che la sua libertà si contrappone alla nostra; si cerca, quindi, di annientarla attraverso l‘odio, ma uccidendo l’altro l’uomo trova il contrario della libertà.
L’uomo è come un Dio mancato, visto che, per Sartre, Dio non esiste (se esistesse, l’uomo non sarebbe libero perché la presenza di Dio costituirebbe un inevitabile fattore di condizionamento). Non ci sono punti di riferimento; vi sono solo gli uomini e i valori che ciascuno crea con le proprie scelte e, quindi, l’uomo scopre che è lui a voler essere Dio, a volersi progettare come un assoluto che non potrà mai sperare di raggiungere.

SUICIDIO O SPERANZA?

Inconsapevolezza, responsabilità, angoscia tormentano il nostro infimo destino. Queste sono le conclusioni che ognuno di noi può trarre da una scrupolosa analisi di ciò che lo circonda, del perché si trova qui, su quale sia il suo ruolo o addirittura se ne abbia davvero uno. Lo stesso Camus, scrittore, giornalista, ma non filosofo, non poté fare a meno per tutta la vita di interrogarsi sul senso della vita stessa, sul perché andare avanti dopo aver scoperto l’assurdo del mondo. Non poté fare a meno, in questo, di guardare a Sartre.

“Esiste soltanto un problema filosofico veramente serio, quello del suicidio. Giudicare se la vita vale o meno la pena di essere vissuta significa rispondere alla fondamentale questione della filosofia” .


Il suicidio di cui parla Camus deve essere distinto da quello romantico ed eroico, ossia il suicidio di chi sacrifica sé stesso per un fine determinato. Il suicidio di cui parla il filosofo è quello di cui sentiamo parlare spesso in televisione, nei minuti dedicati alla cronaca, dove assistiamo a servizi tempestati da frasi del tipo “ma era una persona tranquilla”, “non avrei mai pensato ad una cosa del genere” ecc. E’ il suicidio di chi prova, improvvisamente, l’irruenza dell’Assurdo, che giunge a scardinare il meccanismo della propria quotidianità.

Tutti gli uomini sani hanno pensato al suicidio

Il suicidio si presenta come la soluzione più logica, più sensata. Ma come potremmo pensare in termini logici e sensati, noi che ci relazioniamo col mondo esterno per Assurdo? D’altronde, sempre riflettendo in termini logici, comunque bisogna morire, comunque ogni nostro sforzo svanirà nel nulla, tanto vale morire subito e svelare l’enigma! Ma, appunto, non è così. D’altronde, dice Camus, l’uomo vuole vivere. Ama vivere. La maggior parte dei suicidi infatti vengono effettuati in lacrime, con disperazione. La volontà di vivere dell’uomo assume anche connotati prettamente biologici col principio di autoconservazione. Una parte di noi, la parte corporea, vuole vivere per sua natura (per esempio, quando ci feriamo, il nostro organismo provvede a cicatrizzare); così come la nostra parte spirituale vuole essere felice, vuole il piacere e non il dolore. Alla voglia di vivere dell’uomo Assurdo appartiene il disinteresse per l’avvenire, a favore di un’attività frenetica rivolta esclusivamente all’immediato. La figura che si oppone a quella del suicida, è quella del “condannato a morte”. Dobbiamo tutti comportarci come dei prossimi “condannati a morire”, perché, d’altronde, cos’è che siamo, se non condannati a morte?
A questo punto, si delinea quale sia l’etica camusiana. Abbandonato, rifiutato ogni metro di giudizio soggettivo, e non essendoci più una qualunque scala di valori alla quale riferirsi, non ha più importanza “quali” esperienze facciamo, ma “quante” ne facciamo. Da un’etica della qualità, si passa ad un’etica della quantità: esprimendole in termini omerici, “più si vive, meglio è”. Dato che non possiamo definire un’esperienza migliore delle altre l’importante è fare quante più esperienze possibili. Anche per questo morire, suicidarsi, è un errore imperdonabile.
L’uomo Assurdo deve farsi Sisifo. Il Sisifo di Omero era stato condannato dagli dei alla più terribile delle pene: doveva far rotolare un macigno pesantissimo fino alla cima di una montagna, per poi ricominciare una volta che esso fosse ridisceso dall’altro lato. Tutto questo per l’eternità. Facendosi Sisifo, l’uomo Assurdo non deve sperare nulla, non deve compiangere la propria sorte, ma deve affrontare il proprio destino, essere più forte di esso: Sisifo deve essere più forte degli dei che l’hanno condannato, deve appropriarsi pienamente di quel destino infame, della montagna e del macigno, di ogni goccia del suo sudore e di ogni passo che compie. Deve vivere, lottando.

Ringrazio il mio ex studente Leonardo Bini (uno tra i più brillanti che abbia mai incontrato) per la sua preziosissima collaborazione, Marco Martini

 

BIBLIOGRAFIA:

Ariès Ph., L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi, Bari, Laterza, 1989;

Camus A., Le Mythe de Sisyphe,1942;

Jankélévitch V., La Mort ,1966;

Penser la mort? (1994);

Sartre J. P., L’Être et le Néant, 1943 ;  

                   La nausée, 1938.

 

L’uomo e la morteultima modifica: 2015-09-01T00:48:32+02:00da m_200
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