CIAK SI GIRA. GRANDI AUTORI DELLA STORIA DEL CINEMA

Marco Martini

Ciak si gira. Grandi autori della storia del cinema

CIAK SI GIRA. GRANDI AUTORI DELLA STORIA DEL CINEMA
2° CORSO DI STORIA DEL CINEMA – VIAREGGIO (LU) – Autunno-inverno 2016-2017
SEMINARIO SPECIALISTICO DI II° LIVELLO, organizzato dai Comune di Viareggio e Massarosa, dalla Scuola di Cinema “Intolerance”, da “Lucca Film Festival” e da “Europa Cinema”, 70 h., dal 30/09/2016 al 10/03/2017.

1 – Introduzione al linguaggio filmico: inquadratura e montaggio. F. Truffaut. “Effetto
Notte”. 30 settembre 2016.

2 – Ch. Chaplin. ”Luci della città”. 7 ottobre 2016.

3 – S. Ejzenstejn. ”Ottobre”. 14 ottobre 2016.

4 – B. Keaton. “Il Generale”. 21 ottobre 2016.

5 – J. Ford. “Sentieri selvaggi”. 28 ottobre 2016.

6 – A. Hitchcock. “La finestra sul cortile”. 4 novembre 2016.

7 – O. Welles. “Othello”. 11 novembre 2016.

8 – R. Rossellini. “Viaggio in Italia”. 25 novembre 2016.

9 – V. De Sica. “Umberto D”. 2 dicembre 2016.

10 – F. Fellini. 16 dicembre 2016.

11 – C. Th. Dreyer. “Dies irae”. 13 gennaio 2017.

12 – A. Kurosawa. 20 gennaio 2017.

13 – F. Truffaut. “Jules e Jim”. 27 gennaio 2017.

14 – M. Scorsese. 10 marzo 2017.

P.S. : le lezioni si svolgeranno in orario 18-20 e le proiezioni in orario 20,30-23,00 circa, ogni venerdì a partire dal 30 settembre 2016, secondo il calendario sopra indicato.

1 – Introduzione al linguaggio filmico: inquadratura e montaggio. F. Truffaut. “Effetto notte”. 30 settembre 2016.
Manuale di riferimento per il corso: K. Thompson – P. Bordwell, Storia del cinema. Un’introduzione, Mc-Graw Hill Education, Milano, 2014.
La lingua è quella che si trova nelle grammatiche, con regole codificate nel corso dei secoli, il linguaggio invece è proprio di un’arte specifica, in questo caso il cinema, la più giovane delle arti. Il linguaggio cinematografico si è evoluto nel corso del tempo, anche per quanto concerne la durata della pellicola, inizialmente molto breve. A metà degli anni ’10, con Griffith, si ha un linguaggio già più maturo e negli anni ’20, con il cinema sovietico, ancora di più, anche per quanto concerne la maggiore lunghezza della pellicola. A partire dagli anni ’60 il linguaggio cinematografico conosce una rivoluzione: nel linguaggio cinematografico non c’è una grammatica, soltanto un uso consolidato. Ad esempio, nei dialoghi, prima s’inquadra tutto il discorso di un personaggio, poi si gira la macchina da presa verso l’altro personaggio: nella fase del montaggio s’intersecano i due monologhi per produrre il dialogo. Il regista è come un direttore d’orchestra con gli attori. Passiamo ad analizzare le voci fondamentali di questo linguaggio, partendo dai vari tipi di inquadratura.
Controcampo: è l’inquadratura a 180°, in cui si verifica un “conflitto”, assente, ad es., nel cinema giapponese di Hozu e Kurosawa.
Inquadratura: significa mettere un’immagine in un quadro (si tenga infatti presente che il cinema deriva dalla fotografica e questa dalla pittura).
Campo lunghissimo: è quello della ripresa da più lontano, come certe inquadrature del western e del genere avventuroso (ripresa della Monument Valley in “Ombre rosse” di John Ford, con John Wayae).
Campo lungo: prevale ancora lo spazio, ma la figura umana è già più vicina, come sempre in “Ombre rosse”.
Campo medio: la figura umana è prevalente, ma non esclusiva.
Campo totale: si usa per rappresentare un interno, come una casa, e, generalmente, prima di iniziare un dialogo.
Figura intera: sono inquadrati i personaggi mentre dialogano. Possono essere inquadrati in interni o esterni.
Piano: è la categoria in cui la figura umana è più vicina.
Piano americano: le figure sono rappresentate da sopra il ginocchio. E’ tipica anche questa del western, per inquadrare il cinturone con la pistola.
Piano medio o mezza figura: inquadra dalla cintura o a sopra la testa o al pavimento.
Primo piano: inquadra dalle spalle a fin sopra la testa. Usato da De Sica, come in “Ladri di biciclette”, nella scena in cui il bambino piange. Vuole rappresentare soprattutto le emozioni, i sentimenti ed i conflitti interiori dei personaggi.
Primissimo piano: dal mento alla fronte, è l’inquadratura di un aspetto particolare, che nel caso di un oggetto si chiama “dettaglio”, come in “Quarto potere” di Orson Welles. Si trova in “Taxi driver” di Martin Scorsese o nei film western di Sergio Leone: i duelli di Clint Eastwood, di Lee Van Cleef e Gian Maria Volonté sono duelli di sguardi. La musica è molto importante in questo caso, perché aumenta la tensione.
Decadrage: termine francese che significa letteralmente“ decentramento”, in cui il protagonista è spesso ripreso lateralmente, mentre in primo piano appaiono oggetti insignificanti. E’ usata da Godard e da Scorsese.
Passiamo ora a studiare i vari tipi di movimento.
Carrellata: la macchina da presa è posta su un carrello, può muoversi verso il personaggio, dietro o di lato. In “Quarto potere” la carrellata è addirittura verticale.
Panoramica: la macchina da presa gira in qualsiasi direzione possibile, anche in diagonale, come in “cronaca di un amore” di Michelangelo Antonioni (1950). All’inizio di “Psycho” c’è una panoramica iniziale seguita da una dissolvenza, che si ottiene quando un’immagine si dissolve per trasformarsi in un’altra. Welles, Kubrick, Hitchcock sono i 3 maestri per imparare il linguaggio.
Stacco: si ha quando da un’inquadratura si passa bruscamente ad un’altra, senza dissolvenza, come in “2001: Odissea nello spazio”.
Lo zoom si usa come nella macchina fotografica.
Steadycam: la macchina da presa è legata al corpo dell’operatore, con ammortizzatori idraulici che eliminano le scosse, come in “Shining” (1980) di Stanley Kubrick.
Le inquadrature più usate sono quelle dall’alto e dal basso, come in “Quarto potere”. L’inquadratura inclinata dà un certo senso di inquietudine, come in “Notorius, l’amante perduta” di Alfred Hitchcock.
La profondità di campo utilizza il grandangolare per inquadrare le scene fino in fondo, come avviene sempre in “Quarto potere”, in antitesi allo zoom: tutta l’inquadratura è messa a fuoco fino in fondo. E’ tipica del cinema delle origini.
Il montaggio dà origine alla scena, come i paragrafi di un libro al capitolo. L’insieme delle scene è la sequenza e l’insieme di queste ultime produce il film: montaggio  scena  sequenza  film.
Nella sequenza c’è soltanto unità d’azione, mentre nelle scene vengono rispettate tutte le tre unità aristoteliche di tempo, luogo ed azione. Il montaggio classico è quello lineare, in cui si racconta la storia dall’inizio alla fine, come in “Ombre rosse” (1939): è la tecnica del cinema hollywoodiano che sarà rovesciata negli anni ’60 dal cinema francese di Godard, in cui l’attore chiama in causa direttamente gli spettatori, cosa che era impensabile nel cinema classico.
Il montaggio alternato si può osservare in “Nascita di una nazione” (1915) di Griffith, film accusato di razzismo verso i neri. Si alternano due o più linee di azione, come in “Intolerance” (1916), sempre di Griffith: tutte le storie qui intricate si alternano e crescono di ritmo nella fase finale.
“Effetto notte” (1973) di Francois Truffaut è un film nel film”, una sorta di “meta-film”, in cui il regista, un professionista di grande valore che ha percorso tutte le fasi della gavetta, sperimenta varie tecniche cinematografiche.

2 – Ch. Chaplin. ”Luci della città”. 7 ottobre 2016.
E’ l’autore sul quale si è scritto di più, un equivalente di Shakespeare per il teatro. Sono in produzione, in questi anni, le versioni restaurate dei suoi film. Charlie Chaplin nasce a Londra nel 1889, figlio di due attori di musical abbastanza apprezzati, ma la sua infanzia e l’adolescenza sono terribili: i genitori si separano quando Charlie ha un anno. Vive in ristrettezze economiche, il padre diventa un alcolista, perde il lavoro e muore. Anna, la madre, è una cantante, ma cade in depressione e finisce in una clinica per poveri (Keaton diventerà un alcolista quando arriverà il sonoro, al quale non si convertirà, pena la fine della sua vena cinematografica, che inesorabilmente era sopraggiunta). Il giovane Chaplin, insieme al fratello Sidney, che diventerà anch’egli un attore, conosce la fame e l’orfanotrofio. In “Luci della ribalta” Chaplin presenta il fallimento dell’artista, che avverte il suo tramonto. Chaplin inizia la sua attività da dietro le quinte, poi danza ed infine eccelle nella pantomima. Entra a far parte di una compagnia che usa lo strumento del mimo, della comicità immediata, come le classiche torte in faccia, e si trasferisce negli Stati Uniti nel 1911, per tornare però poco dopo a Londra e ritornare in America nel 1912. Qui viene notato dal regista Mack Sennett. La comicità delle origini si basa sull’aggressività, è il tempo delle risse, delle bastonate in testa, delle torte in faccia, che entrano nel cinema, è la stessa comicità di Stanlio ed Ollio. Fino al cinema del 1915 circa si usa la comicità grossolana delle fiere e del circo. Il primo film di Chaplin è del 1914: in un anno produrrà 36 film in quanto il canovaccio era semplicissimo e si giravano film in 2-3 giorni o una settimana. Chaplin definisce il suo personaggio, il vagabondo dalla giacca con le tasche sfondate, ma anche con delle ambizioni, come dimostrano il bastone e la bombetta, inseparabili co-attori di tutti i suoi film. E’ una figura intermedia tra il comico straccione ed il comico bianco, ma Charlot – questo è il suo personaggio – vuol fare la parodia del comico elegante, pur non avendo ambizioni esagerate, sogna una vita normale, con una sposa. L’attore Eric Campbell è quasi sempre l’avversario di Charlot, è grosso e prepotente, anche fisicamente è quindi l’antitesi di Chaplin. La figura del vagabondo che Chaplin porta nei suoi film con il nome d’arte di Charlot è pienamente autobiografica. All’inizio dei suoi film i pantaloni sono ancora normali, in seguito diventeranno enormi, come le scarpe, venendo così ad assumere l’abbigliamento tipico del clown. Le comiche di Chaplin piacciono sempre più, sia in America che in Inghilterra, poi in Europa e nel mondo intero. La sua comicità si arricchisce costantemente. Nel 1915 è ufficialmente un regista. Nel 1917-18 le comiche di Chaplin le comiche di Chaplin diminuiscono notevolmente e la trama trova ulteriori sviluppi sul piano delle idee e del dramma sociale connesso con quello esistenziale. “L’emigrante” è un film che narra il dramma dell’emigrante. Del 1917 è “L’evaso”, del 1918 è “Vita da cani”, girato subito alla fine della Grande Guerra. Del 1921 è “Il monello”, in cui Chaplin è un vagabondo che gira la periferia, è questo il suo primo grande capolavoro. Talvolta in Charlot emerge anche un lato cattivo, come quando pensa, solo per un momento, di mettere un bambino trovatello in un tombino. Ne “Il monello” ci sono molti elementi autobiografici, unisce dramma e comicità, non ha cultura, né scolastica, né autodidatta, non ha letture alle spalle, ma possiede le caratteristiche del genio, capace di far proprie tutte le esperienze che la vita gli ha presentato. Sul piano personale, chi lo ha conosciuto lo ha spesso definito antipatico, sul piano sentimentale ebbe una vita molto turbolenta, divorziò due volte e la seconda moglie lo definì un maniaco sessuale alla stampa. Ottenne 600-000 dollari ed i figli un fondo monetario. Del 1923 è “La donna di Parigi”, un dramma privo di comicità la cui protagonista è una sua amante, Chaplin amava infatti circondarsi sempre di donne giovanissime. “La febbre dell’oro” (1925) è un altro capolavoro, come “Luci della città” (1931), ma i lavori durano ora 3 anni, come “Una donna di Parigi”: i film richiedono adesso infatti anni di preparazione. In “Luci della città”, ad esempio, l’incontro iniziale con la fioraia richiede tantissimo tempo: Chaplin, non contento, faceva infatti girare la scena varie volte. Nel 1927 fa il suo ingresso il sonoro, ma Chaplin prosegue con il muto, si convertirà al sonoro solo nel 1942 per esclusive ragioni di mercato (a differenza di Buster Keaton, come si è detto). Ne “La febbre dell’oro” si presenta il sogno americano della corsa all’oro e della ricchezza, che per molte persone non si realizzerà. Dal 1914 al 1921 Chaplin usa la figura intera perché è importantissima la pantomima, dopo il 1921 comincia ad usare la mezza figura ed il primo piano, come in “Luci della città”, per dar risalto ai sentimenti. Si pensi alla scena in cui taglia a tavola la scarpa bollita in “La febbre dell’oro” (i chiodi erano di zucchero caramellato e la scarpa era di liquirizia, infatti le scene furono riprese con varie interruzioni e portate a compimento in 3 giorni per evitare un eccesso di zuccheri). Anche la scena finale del film fu, per volontà di Chaplin, ripetuta tante volte. Le scene di povertà narrate con semplicità da Chaplin sono degne dei romanzi realistici di Charles Dickens. Chaplin ha successo sia presso il pubblico intellettuale che popolare, analfabeta, è un genio poliedrico, attore, regista, musicista (suona il pianoforte ed il violino). Del 1928 è “Il circo”, molto pessimista, non è a lieto fine (come Humphrey Bogart in “Casablanca”). Anche per “Il circo” i lavori iniziano già nel 1927. Qui Chaplin è realmente chiuso in gabbia con due leoni, non c’è trucco (si dice che uno fosse buonissimo e si lasciasse fare tutto, mentre l’altro fosse un po’ più nervoso). In questo film dimostra le sue capacità di acrobata, anche se si tratta di illusioni ottiche: Chaplin si trova vicino a terra, in alcune scene, ed è legato ad un cavo, che si vede benissimo. Anche le scimmie sono ammaestrate. I film di Chaplin hanno carattere universale perché rappresentano la maggioranza degli esseri umani, che soffrono: “stare sulla corda” vuol dire proprio questo. Politicamente di sinistra, si definì sempre socialista e mai comunista, comunque sempre dalla parte dei deboli e dei sofferenti. Nel 1932, insieme a Griffith, fonda una casa cinematografica, la “United Artist”. Nel 1936 esce “Tempi moderni”: è una satira feroce del mondo della fabbrica. In “Luci della città” ironizza sul ricco, che è buono quando è ubriaco, cattivo quando è sobrio. Nel 1939 gira “Il grande dittatore”, che esce nel 1940, altro grandissimo capolavoro: Chaplin, pur ignorando allora l’esistenza dei lager, si schiera già contro Hitler, che era invece tollerato dagli ambienti antisemiti americani come emblema dell’anticomunismo; oltre ai deboli ed ai sofferenti, un’altra categoria di persone che riscuote la simpatia di Chaplin è quella degli ebrei. Quando gli fu infatti chiesto se era ebreo, rispose che non aveva questo “onore”. Del 1947 è “Monsieur Verdoux”: ambientato dopo la prima guerra mondiale, riflette sulle stragi. Del 1957 è “Un re a New York”, girato a Londra, del 1967 “La contessa di Hong-Kong” con Marlon Brando e Sophia Loren, ma non ha successo. Muore nel 1977, dopo essere stato perseguitato, in quanto simpatizzante di sinistra, dall’F.B.I. e da Mc-Carthy. Chaplin fu unanimemente definito dalla critica “il Moliere del cinema”. Nel 1952 gli era stato comunicato di non tornare in America perché sarebbe stato arrestato come sovversivo, per questo si stabilì in Svizzera, ove rimase fino alla morte, avvenuta nel 1977.

3 – S. Ejzenstejn. ”Ottobre”. 14 ottobre 2016.
Sergej Ejzenstejn è stato definito “il Michelangelo del cinema”, in quanto è stato un grandissimo creatore di forme. Di famiglia benestante, studia le lingue ed in particolare gli ideogrammi giapponesi, nel 1917 fa parte dell’ufficio di propaganda dell’Armata Rossa, in quanto era anche un ottimo disegnatore. I suoi lungometraggi sono 7, di cui 4 muti, vale a dire “Sciopero”, “La corazzata Potemkin”, “Ottobre”, “Il vecchio e il nuovo”, film socialmente impegnati in difesa dei contadini. Il film “Alexander Nevskij”, del 1938, sull’unificazione della Russia, è già sonoro. Tra il 1943 ed il 1945 gira “Ivan il terribile” e “La congiura dei Boiari”, che ottenne il premio Stalin. Altri due lungometraggi, tra i quali “Que viva Mexico!”, non furono mai completati. Prima esaltato da Stalin, fu poi perseguitato (gli fu tolta la cattedra di storia del cinema a Mosca), accusato di tradimento, e solo al termine della sua breve vita (era nato nel 1898 e morirà a 50 anni, nel 1948, di infarto, dopo un ultimo periodo caratterizzato da problemi di salute) riabilitato. Il regista aveva infatti progettato, ma invano, la traduzione de “Il capitale” di Marx in immagini, ma il suo progetto fu respinto dalla Paramount americana, alla quale si era rivolto e per il cui tentativo fu accusato di tradimento da Stalin. Ejzenstejn era infatti tornato in U.R.S.S. nel 1932 e proprio per essersi recato negli U.S.A. viene “massacrato” dal regime sovietico e costretto a pubbliche abiure. Alexandrov, collaboratore di Ejzenstejn, cercherà di proseguire l’opera del regista, ma con scarso successo, e se il cinema sovietico degli anni ’20 è socialmente molto impegnato, Alexandrov è già più moderato di Ejzenstejn, che è sicuramente il regista più impegnato di questa generazione. “Il prato di Bezin” è un film di Ejzenstejn che parla dei grandi cambiamenti che ci sono nelle campagne e nei villaggi, ma il film è andato perduto durante la seconda guerra mondiale e sono rimasti soltanto un centinaio di fotogrammi. Il cinema sovietico è, ovviamente, un cinema politicamente impegnato. Gli anni ’20, anche in Russia, sono gli anni delle avanguardie, con riviste e movimenti pittorici che segnano un grande fermento culturale. In Unione Sovietica si sviluppa il futurismo di Vladimir Majakovskij, un futurismo marxista e leninista, a differenza di quello italiano, filofascista. Anche il teatro sovietico conosce un grande impulso, con Stanislavskij: emerge il canone del “realismo socialista”, codificato da Stalin, Kirov e Zdanov negli anni ’30. E’ un teatro sia introspettivo, con risvolti psicologici, sia sociale. A Leningrado sorge la scuola di recitazione più importante del mondo, che tanta influenza avrà anche sul cinema americano: Paul Newman, Al Pacino, Marlon Brando, Robert De Niro provengono da questa scuola. “Sciopero” è un film del 1924, ma parla dello sciopero del 1912, manifestazione emblematica di tante altre di quegli anni. Il realismo di Ejzenstejn si nota anche dal fatto che certe scene, come le risse, sono effettivamente tali, così come reali sono gli sgozzamenti degli animali. I padroni delle fabbriche sono derisi, anche fisicamente, e vengono presentati come grotteschi e cattivi, così come anche i sottoproletari, privi di coscienza di classe, che fanno il gioco dei capitalisti. Il regista utilizza la tecnica del montaggio alternato, presente soprattutto nella parte finale di “Sciopero”. Riprende da Chaplin la figura del proletario con bastone e bombetta ed una certa espressività dei visi, utilizza anche immagini di repertorio e tutti gli attori sonio tratti dalla strada, non ci sono professionisti: Ejzenstejn rifiuta quindi tutti i tratti del cinema occidentale borghese ( persino nel neorealismo italiano post seconda guerra mondiale si conservano, tra tanti attori presi dalla vita reali, pochi professionisti). La forza del cinema sovietico degli anni ’20 e successivo ed in particolare del cinema di Ejzenstejn consiste nelle immagini: ad esempio, in “Ottobre” si vuole rappresentare Kerenskij capo del governo provvisorio, come un dittatore, inquadrando prima Kerenskij e subito dopo un busto di Napoleone. “La corazzata Potemkin” viene commissariata al regista nel 1925 per commemorare la rivoluzione del 1905. Ricorda la rivolta dei marinai della Potemkin che rifiutano il rancio costituito da carne con i vermi: i marinai si ribellano agli ufficiali. La celebre scena della scalinata è girata a Odessa, il film è muto, ma le musiche sono originali. Il film è diviso in 5 episodi, ognuno autonomo: è lo schema della tragedia classica. Ogni parte costituisce poi l’intero film, immaginato come un corpo vivente. Anche la madre del regista è una comparsa, fortissima è qui la potenza espressiva delle immagini. I soldati che scendono la scalinata sono una macchina di morte: sono inespressivi, privi di umanità, i volti non sono infatti raffigurati (anche in “Ottobre” il volto dei soldati è sempre coperto dagli elmi), a differenza dei fucili e degli stivali. Il regista ritrae invece i volti ed i particolari dei visi dei proletari, vuole raffigurare il loro dolore, la loro disperazione, la loro rabbia, la loro rivincita. Campeggia nella macchina da presa, ad esempio, il volto della madre che raccoglie il proprio bambino morto, così come scandagliate sono le immagini che rappresentano lo scivolamento della carrozzina lungo la scalinata. Alla barbarie dei soldati zaristi risponde il fuoco della corazzata Potemkin. Significative le inquadrature delle tre statue del leone, sdraiato, seduto alzato, che rappresentano il progressivo risveglio del proletariato. In particolare, il regista prende di mira i sottoproletari, servi dello zar. Ejzenstejn rallenta le riprese per sottolineare le scene che gli interessano, come nel caso della carrozzina, è la stessa tecnica usata in certi film western, come “Il mucchio selvaggio”. I mezzi del cinema sovietico degli anni ’20 sono limitati e per questo è fondamentale il montaggio delle immagini. Del 1938 è “Nevskij”, con le sublimi musiche di Sergej Prokofiev. I colori più utilizzati dal regista, quando approda al colore, sono il rosso, simbolo della passione, ed il nero, emblema della morte, come ne “La congiura dei boiardi”, prosecuzione, come si è detto, di “Ivan il terribile”: i due film costituiscono un dittico, che doveva essere una trilogia, non portata a termine per la morte del regista, che ha lasciato anche importantissimi scritti sul teatro di Shakesperare, dimostrando una creatività notevolissima.

4 – B. Keaton. “Il Generale”. 21 ottobre 2016.
Insieme a Chaplin, Buster Keaton è un altro grande autore del cinema comico, oggi dimenticato dalla critica, in quanto la sua carriera si è arrestata, come già precisato, con l’avvento del sonoro, al quale Keaton non si rassegnò. Era nato nel Kansas nel 1895 e fin da bambino fu attratto dalle luci del palcoscenico. Era infatti figlio, come Chaplin, di due attori comici. Si chiamava, in realtà, Joseph, il soprannome “Buster”, che significa “capitombolo, caduta”, gli è stato dato da un prestigiatore che lavorava nella compagnia del padre. Conobbe Chaplin e vi collaborò, anche se non vi fu mai una vera amicizia tra i due. Il soprannome è dovuto appunto ad un caduta subita dal regista quando era ancora bambino, poiché ruzzolò dalle scale. Iniziò a lavorare all’età di 4 anni, poi venne ingaggiato a Los Angeles, dal 1920 è regista e fino alla fine degli anni ’20 realizza diversi cortometraggi; dal 1923 inizia a girare lungometraggi. Le sue ultime opere sono del 1928. Nello stesso 1928 fa un contratto con la “Metropol Gold Mayer”, ma è ridotto al ruolo di semplice attore, in quanto la scenografia e la trama dei film sono scritti da altri. Inizia per lui la parabola discendente. Nelle scene di “Bill del vaporetto” non ci sono trucchi: le facciate delle case, fatte di compensato e legno leggero, cascano realmente. Morì nel 1966. Keaton, a differenza di Chaplin, non critica la società e non ha un personaggio fisso. “Lo spaventapasseri” è un suo celebre film, in cui si narrano le imprese di Buster e del suo rivale in amore per conquistare una stessa donna. Nei suoi film, frequenti sono i rapporti con gli oggetti. Il surrealismo di Keaton è in realtà un iperrealismo. Si cela la realtà per lasciarla latente, ma presente, Keaton rovescia l’apparenza della realtà e si avverte in questo l’influenza di Freud. Anche il tema della passione amorosa, ricorrente in Keaton, è derivato da Freud. Le acrobazie sono ricorrenti nei film di Keaton, e si tratta quasi sempre di acrobazie vere, usa spesso la figura intera e la mezza figura, non il primo piano. Girò anche un film con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia ed uno anche con Chaplin. “Sherlock Jr.” (1924) è un altro suo film, una metafora del rapporto tra ladri ed investigatore. Si sposò dapprima con un’attrice, che alla fine degli anni ’30 gli chiese il divorzio: non ebbe una vita sentimentale felice, come dimostra l’anno, il 1937, trascorso in ospedale psichiatrico. Gli anni ’30 furono terribili per Keaton: fu anche accusato dell’omocidio di una donna, processato, arrestato per un anno ed inseguito liberato perché innocente. Fu dedito all’alcool, in Messico si sposò nuovamente, ma si separò dopo un mese. Il terzo matrimonio della sua vita è infine felice, negli anni ’50. Gli ultimi anni della sua vita sono anche allietati dalla sua riscoperta, da parte della critica, come regista e come attore. Viene infatti girato un documentario di due e mezzo sulla sua vita da parte di una casa cinematografica bolognese, che conserva ancora oggi l’archivio di tutti i suoi film. Keaton utilizza sempre molti cambiamenti di scena, spesso ricopre più parti in un fil, talvolta anche tutte, il suo scopo è quello di presentarci il film come sogno, desiderio di evasione. Usa molti effetti speciali, anche se non è in grado di regalarci le emozioni di Chaplin. “Il cameraman” è l’ultimo suo film, in cui il protagonista deve girare ciò che vede per strada, qui abbondano gli effetti speciali, apparizioni e sparizioni. L’ironia deriva proprio dal montaggio delle sue scene mute e dal bianco e nero. Il film è scritto ed interpretato da Keaton, anche se lui non è il regista. Fu acerrimo nemico del cinema hollywoodiano, che definì “un cinema per scimmie”. I film degli anni 1929, 1930, 1931 sono deludenti, gli anni ’30 sono terribili per Keaton, sia sotto il profilo sentimentale che professionale. Nel film “Il generale” ci parla di una locomotiva, che appunto è chiamata “generale”: la storia è ambientata durante la guerra di secessione americana (1861-65) e parla dell’arruolamento di una famiglia di sudisti. Gli effetti speciali sono notevoli e molte scene sono girate in ambienti naturali.

5 – J. Ford. “Sentieri selvaggi”. 28 ottobre 2016.
Ford è il simbolo del cinema western. Con il sonoro realizza 9 lungometraggi, con il muto nel aveva girati altri. Ford è il nome d’arte, è irlandese, figlio di immigrati negli Stati Uniti. Come Ejzenstejn, Fellini, Pasolini, Hitchcock, è stato un disegnatore. Debutta nel teatro come attrezzista. I primi film sono girati a Los Angeles. Ford è il regista “top” del western”, che inizia a girare a metà degli anni ’20. “La conquista del west” è un western storico degli anni ’60. “I tre furfanti” è del 1923, mentre “Il cavallo d’acciaio” è un altro muto di pochi anni successivi, parla dell’arrivo del treno. Nel 1928 viene sonorizzato un suo film muto. Pur vendendosi al sonoro per ovvi motivi di mercato, affermerà esplicitamente la superiorità del muto. Dagli anni ’30 al 1966 gira i suoi capolavori, non solo western, ma anche commedie e film di guerra, anche se nella metà degli anni ’50 amerà identificarsi con il genere western. Strinse amicizia con Orson Welles: nota è una sua intervista con Welles, che fu pubblicata. “Ombre rosse” (1939) è il suo film più famoso ed è il primo girato nella Monument Valley. La trama dei suoi film è sempre semplice e lineare. “Il traditore” (1935) e “Com’era verde la mia valle” sono altri suoi famosi film; molti film sono girati quasi interamente in studio, se non addirittura completamente, come “Il traditore”, sulla questione irlandese. Sono comunque tutti film d’azione. Ford è amico personale degli indiani, che in quegli anni ricevono da Ford fonti di guadagno. In “Ombre rosse”, nella scena in cui il protagonista salta sui cavalli della diligenza, non è l’attore Wayne, ma un acrobata, anche se John Wayne sapeva andare a cavallo (ovviamente è sempre utilizzata la sella americana, non quella inglese). “Il grande sentiero” è l’ultimo film e qui Ford racconta la vera triste condizione degli indiani. Gli indiani sono veri apache e navajos. Del 1910 è “Furore”, di tutt’altro genere: parla dei contadini poveri dell’ovest. Durante la II guerra mondiale realizza vari documentari. Del 1946 è “Sfida infernale”: una storia vera, un suo capolavoro, drammatico, nella storia di una famiglia. Lee Van Cleef è un altro attore scelto da Ford, ma per parti ancora minori (farà la sua fortuna nei film western di Sergio Leone). “Sfida infernale” affronta il tema della giustizia, in bianco e nero, e sul piano della composizione delle immagini è uno dei film migliori; il contrasto luce/ombra è quello tra bene/male, buoni/cattivi. Henry Fonda è il protagonista ed eroe positivo. Non mancano, in questo film, come in altri di Ford, scene di umorismo. Particolare, nella scena del duello finale, è la camminata di Fonda, che passeggia cadenzando i passi, con estrema tranquillità, perché lui è l’eroe: non c’è musica, nella scena finale, la drammaticità è nelle scene: non è il tradizionale duello western alla Sergio Leone. “Il massacro di Fort Apache” (1948) è ispirato alla storia del generale Custer e con “I cavalieri del nord-ovest” (1949) e “Rio Bravo” (1950) costituisce una trilogia, all’interno della quale il terzo è il meno riuscito, mentre il più valido, dal punto di vista scenografico e di costruzione del film, è il secondo; Ben Johnson è un attore di questo film. “La carovana dei mormoni”, degli anni ’50, è il classico racconto epico di una comunità che si sposta, inseguita dai banditi (i mormoni non portano armi). “Sentieri selvaggi” (1956) è uno dei 9 western sonori di Ford: è un viaggio nello spazio e nel tempo. Il protagonista, ancora John Wayne, cerca la nipotina per 6 anni, perché era stata rapita dagli indiani; bellissime le scene d’azione e le ambientazioni paesaggistiche tra la Monument Valley e le montagne rocciose innevate.

6 – A. Hitchcock. “La finestra sul cortile”. 4 novembre 2016.
Nasce nel 1899 in un sobborgo di Londra, figlio di un commerciante dal temperamento piuttosto nervoso. Dopo alcuni cortometraggi, si dedica ai lungometraggi, a partire dagli anni ’20: il terzo lungometraggio è “Il pensionante” (1926), un film completo sotto ogni punto di vista, come Hitchcock stesso affermò. Parla di un assassino misterioso che uccide delle giovani bionde; in una pensione arriva un forestiero e la gente comincia a sospettare di lui, che è invece innocente. All’età di 26 anni Hitchcock è già un regista affermato. Francois Truffaut racconta della passione di Hitchcock per il cinema in un suo noto libro, Il cinema secondo Hitchcock: il regista inglese parlava di cinema anche durante la pausa pranzo. Hitchcock è ossessionato dai sensi di colpa, dalla paura, dal peccato, dal buoi, fobie che sono incrementate dal fatto di aver studiato presso i gesuiti. Ingrid Bergman, James Stewart, Cary Grant sono i suoi attori prediletti. I suoi film più celebri sono “Notorius, l’amante perduta, “Nodo alla gola”, “Intrigo a Stoccolma”, “Intrigo internazionale”, “Franzy”, “Rebecca, la prima moglie”, “La donna che visse due volte” (“Vertigo”), Psycho”, “Il caso Paradine”, “La finestra sul cortile”, “Il delitto perfetto”, “Topaz”, “Il club dei trentanove”, “L’uomo che sapeva troppo”. E’ il maestro del brivido e del giallo, che mette sulla scena l’atavica paura del buio, del pericolo dell’ignoto e che mostra di aver un alto senso della giustizia morale.
Negli anni ’20 lavora come disegnatore di didascalie, ma nel 1939 è già ad Hollywood. Hitchcock era piuttosto basso e grasso, arrivò a pesare 150 kg.: nel cibo trova la sublimazione delle passioni sessuali. Con “Rebecca, la prima moglie” vince l’oscar. “Ricatto” è il primo film sonoro, degli anni ’30. Durante la guerra dirige “L’ombra del dubbio” (1943). “Notorius” è un film spionistico, ambientato durante la seconda guerra mondiale, scritto nel 1944, girato successivamente: è la storia di due uomini che amano la stessa donna: Hitchcock gioca molto sull’equivoco. Fortissimi sono gli elementi di tensione quando la donna, Ingrid Bergman, vede l’ombra del marito al quale cerca di prendere la chiave della cantina: il regista utilizza qui la soggettiva. Le riprese sono quasi dei giochi di prestigio. Ne “Il sospetto” è notevole l’inquadratura quando Cary Grant sale le scale con un bicchiere di latte luminosissimo: Hitchcock vi aveva infatti immerso una lampadina. Nei film di Hitchcock non sono importanti le parole, ma le immagini e le musiche, anche nei suoi film di minore portata. Intervista con Truffaut è un noto libro di Hitchcock in cui il regista spiega la tecnica della “tensione narrativa”, che è la suspense che intrattiene lo spettatore per un certo periodo di tempo; lo spettatore parteggia sempre per i personaggi che si vengono a trovare in situazioni di pericolo, anche quando sono i “cattivi”. Hitchcock, con la tensione narrativa, vuole condurre lo spettatore a provare, in specifici momenti, determinate sensazioni. “Delitto per delitto” è un altro suo celebre film, come “Io confesso”, con Montgomery Clift. Nonostante le sue presunte frustrazioni, Hitchcock si è sposato ed ha avuto due figlie. Con la moglie ha sempre avuto un rapporto conflittuale. “Gli uccelli” è un film emblematico per l’immagine del mondo che Hitchcock dimostra di avere, un mondo costantemente instabile. Uno degli effetti speciali più grandiosi è quello dell’attacco dei gabbiani (è una soggettiva). Filma gli uccelli riprendendoli in momenti diversi e sovrapponendo le immagini con grande maestria: è un trucco che risale alle origini del cinema, anche se gli uccelli sono ammaestrati o, in alcuni casi, finti e telecomandati. “La finestra sul cortile” è stato girato interamente in studio.

7 – O. Welles. “Othello”. 11 novembre 2016.
E’ stato un “ragazzo prodigio” della storia del cinema; durante la guerra fa il prestigiatore (“sega” in due parti il corpo di Marlene Dietrich). Già da piccolissimo, all’età di 3-4 anni, fa la comparsa in un’opera lirica al teatro di Chicago, alla stessa età, stando a quando egli stesso racconta (aveva un’alta autostima) impara a leggere sul Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. Frequenta, da ragazzo, una celebre scuola di teatro. Il padre era ingegnere, la madre una pianista molto brava; anche Orson si diletta come pianista, ma interrompe questa attività all’età di 9 anni, quando rimane orfano di madre. Si diletta anche di letteratura, rimane orfano poi anche di padre e vive con il tutore Bernstein. Viaggia molto, anche in Europa, con l’idea di diventare pittore; visita l’isola di Aran, in Islanda, si trasferisce poi in Irlanda, dove fa l’attore di teatro, poi a Londra, Chicago, New York, dove lavora alla radio. Intorno alla metà degli anni ’30 mette in scena opere teatrali di un certo rilievo.
Ambienta il “Macbeth” nell’isola di Haiti ed assume come attori persone di colore: per questo subirà anche un’aggressione di matrice xenofoba. Nell’ Italia fascista ambienta il “Giulio Cesare”: è una sorta di Carmelo Bene degli anni ’30. Tra gli attori celebri si ricordi Perry Mason. Viene chiamato a Hollywood dalla RKO, una società di produzione cinematografica: è il 1939. All’arrivo ad Hollywood non viene bene accolto, viene considerato un eccentrico.
Poco dopo realizza “Quarto potere”, il suo capolavoro, in cui sperimenta varie tecniche di montaggio ed usa un’illuminazione che ricorda l’espressionismo tedesco, con molte ombre; il protagonista, ad esempio, non si vede mai in volto. Riprende dal basso, con il grandangolare, deformando le figure. Anche sul piano narrativo stravolge lo schema hollywoodiano, seguendo il consiglio di Truffaut. . Fa ampio uso del grottesco, utilizza tagli di luce per illuminare i volti come vuole che appaiano. Inizialmente il film non ha successo: ne avrà moltissimo in seguito. E’ oggi uno dei film più studiati nelle Università e nelle scuole di cinema.
“L’orgoglio di Anderson” è un altro suo film, meno “inventivo” di “Quarto potere”, ma utilizza sempre forme sperimentali. “Terrore sul mar Nero” è invece un film spionistico girato durante la guerra, nel quale Welles è solo attore, non regista. “Lo straniero” parla di un nazista fuggito in America ed inseguito dall’F.B.I. Crea effetti speciali facendo ampio suo della dissolvenza. La macchina da presa è spesso collocata su una gru: notevoli sono le riprese dall’alto, dal basso, in verticale.
Mette in scena anche opere di Pirandello, s’ispira alla psicoanalisi: il tema pirandelliano di Uno, nessuno e centomila è ricorrente. La vita è concepita da Welles come un labirinto ed è impossibile trovare una verità assoluta. La deformazione è una costante di Welles e ciò corrisponde alla sua concezione della vita; a questo scopo, molto usati sono gli specchi, ogni certezza è distrutta, come dimostrano la sovrapposizione di immagini e la frazione di vetri e specchi. Il mondo è inconoscibile, ma non necessariamente cattivo, se ognuno si adopera per il bene. Il mondo del male, degli squali che si mangiano a vicenda, è quello del capitale. Negli anni ’30 Welles è in prima linea per combattere molte battaglie per i diritti civili.
Dopo la guerra, si separa e si risposa con una famosissima diva del cinema. “La signora di Shangai” è un altro suo celebre film, che sarà ammirato da Woody Allen.
Nel 1948 gira una versione cinematografica del “Macbeth”, con un costo bassissimo: il film è girato completamente in studio in soli 23 giorni, dopo 4 mersi di prove. Nel 1949 il suo rapporto con Hollywood è deteriorato ed inizia la messa in scena di “Othello”, sul quale film, negli anni ’70, girerà anche un documentario. In “Othello” il montaggio è molto rapido (utilizza anche qualche inquadratura sullo stile di Ejzenstejn). Straordinarie le riprese delle ombre nere e le musiche inquietanti. Utilizza anche elementi pittorici. Le inquadrature, come quella in cui Iago viene gettato nella gabbia, sono brevi e molto veloci. Desdemona, Iago, Othello, Cassio vivono grandi passioni. E’ girato, in parte, in Marocco.
Successivo è “rapporto confidenziale”, in cui il protagonista assume un investigatore affinché indaghi su lui stesso, affetto da amnesia.
Sono circa una dozzina i lungometraggi completati, molti non vengono mai finiti, come “Don Chisciotte”, girato in Messico.
In seguito viene nuovamente chiamato ad Hollywood per girare un noir.
“Il processo” è tratto dall’omonima opera di Kafka. Muore nel 1985.

8 – R. Rossellini. “Viaggio in Italia”. 25 novembre 2016.
Se Fellini è stato il regista più amato e conosciuto in Italia, Roberto Rossellini è stato quello più apprezzato all’estero, soprattutto in Francia, che divenne una sorta di sua “seconda patria”.
Ha avuto una vita privata complessa e contraddittoria, separato, risposato, con 6 figli; una vita privata talvolta poco compresa, che trova un certo riscontro anche nei suoi film. Cercava sempre, nei suoi lavori, la verità senza compromessi: da qui la sua adesione neorealismo cinematografico, che si svolge parallelamente a quello letterario.
“La nave bianca” (1941) è già un film molto realistico, mentre “Un pilota ritorna” (1942) è scritto da Vittorio, figlio di Benito Mussolini, con il quale Rossellini instaurò un rapporto di amicizia, nonostante il regista provenisse da famiglia antifascista e fosse lui stesso un antifascista. “L’uomo della croce” parla di un cappellano in tempo di guerra.
Rossellini è di famiglia molto benestante, cerca di realizzare i suoi film con pochissimi soldi (molte scene vengono girate in studio), ma la sua condizione di benestante s’interrompe bruscamente con la morte del padre. Entra nel cinema come tecnico del suono, in seguito gira vari documentari naturalistici sul mare ed uno anche sulla vita degli insetti. Viene etichettato come il padre del neorealismo e “Roma città aperta”, girato nel 1944 ed uscito nell’agosto 1945, ne è il manifesto, anche se il suo film più neorealista è indubbiamente “Paisà”, realizzato ad episodi, come anche il successivo “India” (1957-58), girato appunto in India. Nei suoi film il regista descrive le difficoltà e la fame che lui stesso ha provato, in prima persona, durante la guerra (dichiarerà di aver perso 35 kg.), i suoi film sono infatti girati, subito dopo la guerra, nei quartieri popolari delle città ed in paesi semidistrutti; pochissimi sono i professionisti, come Anna Magnani ed Aldo Fabrizi, ma la maggioranza degli attori sono presi dalla strada, tra la gente comune. “Paisà” (1946) racconta l’avanzata delle truppe americane dallo sbarco in Sicilia al Po: l’autore scopre, in questo film, l’Italia popolare, dal Sud al Nord. Rossellini mostra l’arte di arrangiarsi, tipica degli italiani di ieri e di oggi. A differenza di Rossellini, Luchino Visconti ne “La terra trema”, rielaborando il romanzo verghiano I Malavoglia, descrive la miseria con tocchi artistici di altissima raffinatezza; Rossellini, generalmente, non ripeteva le inquadrature, girava ciò che vedeva, con pochissimi “ciak”, come faranno anche Vittorio De Sica e Clint Eastwood, a differenza appunto di Visconti, Stanley Kubrick e Sorrentino.
Ingrid Bergman finanzierà qualche film di Rossellini, in quanto ne era innamoratissima: all’età di 71 anni l’autore, che morirà poco dopo, dichiarerà infatti di essere povero, dopo essersi indebitato per girare i suoi film.
“Germania anno zero” è girato in Germania nel 1947, uscirà nel 1948, “Stromboli” è immediatamente successivo: estremamente realistiche le immagini dei pescatori nella tonnara siciliana. I film neorealisti non hanno immediato successo in Italia, mentre lo riscuotono in Francia: Rossellini è molto apprezzato da Francois Truffaut e dai giovani intellettuali francesi. Le trame dei suoi film sono lineari e semplicissime, così come le scenografie, quasi inesistenti.
Del 1950 è “Francesco, giullare di Dio”: il santo di Assisi è particolarmente amato dal regista, anche in questo film l’unico protagonista è Fabrizi. Risposatosi con Ingrid Bergman dopo la fine di una storia burrascosa con la Magnani e la perdita di un figlio, Rossellini ebbe altri due figli. All’inizio degli anni ’50 gira “Europa 51” e “Viaggio in Italia”; incontra, in questi anni, Giulietta Masina. In “Viaggio in Italia” non esprime soltanto più, come nei film precedenti, un disagio sociale, ma anche esistenziale, relativo ai rapporti umani: il film narra infatti di una coppia inglese che compie un viaggio a Napoli ed a Pompei, ma va incontro al rischio dell’estraneazione reciproca.
Negli ultimi anni della sua vita si convince della superiorità della televisione sul cinema per quanto concerne la funzione didattica del film: inizia a girare infatti film didattici, con lo scopo di insegnare, come “Viva l’Italia”, prodotto nel 1961 in occasione del centenario dell’unità (anche qui mantiene la sua vena neorealistica, in quanto Garibaldi viene rappresentato realisticamente come un uomo “concreto” che soffre di acciacchi e non come una figura leggendaria), “Anno 1”, che parla della rinascita italiana negli anni ’60, “La presa di potere da parte di Luigi XIV” (1966), “Socrate”, “Cartesio”. Sono, questi ultimi lavori “didattici”, finalmente apprezzati anche in Italia, più dei suoi film neorealistici, come si è detto.

9 – V. De Sica. “Umberto D”. 2 dicembre 2016.
“Sciuscià” (1946), “Ladri di biciclette” (1948), “Miracolo a Milano” (1950), “Umberto D.” (1951) “L’oro di Napoli” (1954) sono 5 capolavori di De Sica, i cui film, come quelli di Rossellini, sono scritti da Zavattini. L’essere umano, nei film di Vittorio De Sica, è costantemente “pedinato” dalla macchina da presa, come emerge in “Ladri di biciclette” ed in “I bambini ci guardano”, in cui la macchina da presa segue costantemente il bambino (operazione simile verrà fatta da Tarkovskij ne “L’infanzia di Ivan”). Nato a Sora, in Ciociaria, nel 1910, De Sica è sentimentalmente molto legato a Napoli (il padre era napoletano e la madre romana). Il mondo di De Sica è lo stesso mondo reale descritto da Rossellini e come Rossellini, anche De Sica utilizza attori non professionisti, ma tratti dalla strada, come emerge in “Sciuscià”, che narra il dramma degli scugnizzi napoletani immediatamente dopo la guerra. Nel 1910-11 scopre le sue doti canore, distraendo i carabinieri con le sue canzoni napoletane, mentre la madre sta rubando dei fichi: è questo già un debutto teatrale. A differenza di Rossellini, De Sica proviene da una famiglia dalle condizioni economiche modeste. Nel 1917, all’età di 16 anni, fa la sua prima apparizione nel cinema, in seguito, dopo un breve periodo trascorso a Firenze, si diploma come ragioniere. Tra la fine degli anni ’20 ed i primi anni ’30 è già un attore professionista di cinema, dopo aver lavorato come attore di teatro: come attore, recita in tutti i ruoli, facendo così proprio un metodo del teatro tradizionale. “L’oro di Napoli” lancia come grande attrice Sophia Loren, protagonista anche de “L’oro di Napoli” nei panni della pizzaiola. Con “La ciociara” (1960) ottiene l’oscar, “Ieri, oggi e domani” è un altro oscar. Intorno alla metà degli anni ’30 viene notato dal regista Mario Camerini, convinto antifascista, lontano dai “telefoni bianchi”. Nel 1940 debutta come regista in “Rose scarlatte”, una commedia sentimentale; in “Teresa Venerdì” debutta Anna Magnani. “I bambini ci guardano” è un suo capolavoro della metà degli anni ’40, rappresenta il mondo drammatico degli affetti familiari visto con gli occhi di un bambino di 5 anni. Per farlo piangere, il regista disse al bambino che i suoi genitori erano morti in un incidente stradale: De Sica utilizzava infatti anche strumenti poco consoni, ma funzionali alle parti degli attori: in “Ladri di biciclette”, alla fine del film, viene fisicamente schiaffeggiato il bambino per farlo piangere. “Sciuscià” (1946) è il suo primo film neorealista, che segna la svolta nella sua produzione di regista, mentre “Umberto D.” è il suo ultimo film neorealista: è la storia di un anziano impiegato in pensione, un signore colto, ma povero e sfrattato dalla stanza presso la quale è pigionante, che ha il suo unico rapporto affettivo con il suo cagnolino. “Sciuscià”, “Ladri di biciclette”, “Miracolo a Milano” non hanno successo di pubblico, mentre sono molto apprezzati all’estero, soprattutto i primi due film, che rispettivamente prendono il premio oscar nel 1948 e nel 1949, e soprattutto in America. La scena della camionetta della polizia che si allontana dalla città con i ragazzini a bordo in “Sciuscià” verrà ripresa qualche anno dopo da Truffaut ne “I 400 colpi”. “Il giardino dei Finzi Contini” (1970), tratto dal romanzo di Giorgio Bassani, è il suo ultimo film: De Sica morirà nel 1974.

10 – F. Fellini. 16 dicembre 2016.
Federico Fellini è il regista italiano più noto a livello mondiale, soprattutto in America ed in Francia; ha dato origine anche ad un aggettivo, “felliniano”. Ha portato nel cinema il mondo dell’inconscio e dei sogni, un mondo di difficile comprensione. Nasce a Rimini nel 1920 da madre romana e padre romagnolo; primo di 3 fratelli, è predisposto per il disegno; all’età di 19 anni è a Roma, ove disegna per la rivista “Marco Aurelio”, una rivista di cinema sulla quale scriveva Ettore Scola. Anche il mondo circense dei clown rientra nel suo cinema, come la sua infanzia a Rimini. A Roma frequenta l’università e collabora con attori di teatro molto famosi, come Aldo Fabrizi. Il giovane Fellini lavora in spettacoli comici e varietà, in seguito collabora con Rossellini in “Roma città aperta” e “Paisà”, girando, in quest’ultimo film, tutta l’Italia, insieme a Rossellini. I due autori mostrano tuttavia due concezioni antitetiche della vita, realistica Rossellini, “magica” Fellini. Non partecipa alla realizzazione di “Germania anno zero”, ma invece a “Stromboli” ed a Francesco, giullare di Dio”, film nel quale compaiono anche i frati previa autorizzazione dell’autorità ecclesiastica. Fellini strinse amicizia anche con Marcello Mastroianni.
Fellini vive molto di notte, e le sue notti romane, insieme alle prostitute, rientrano nei suoi film, come “Le notti di Cabiria”. “Luci di varietà” racconta il teatro povero, “Roma” è ambientato nella capitale degli anni ’60. Del 1952 è “Lo sceicco bianco”, che racconta un mondo fittizio e superficiale, fiabesco. Del 1953 è “I vitelloni”, il suo primo successo, in cui narra le vite dei “figli di papà” della borghesia romana; qui compare Alberto Sordi. Il film, girato ad Ostia e non a Rimini, ha un notevole successo di pubblico. “La strada” (1954) è un altro suo capolavoro. Alla verità, il regista preferisce la fantasia: dalla finzione, per Fellini, nasce la verità. Saltimbanchi di fiera, teatranti di strada, equilibristi, figure del mondo circense, fiere di paese animano questo film; il forzuto Zampanò è l’essere, quasi animalesco, protagonista di questo film, ma proprio in questo personaggio, alla fine, penetra un senso morale. Con “La strada” ottiene il primo oscar, seguito da altri 3 rispettivamente per “8 ½”, “Amarcord”, “La carriera”. Una delle protagoniste dei suoi film è Giulietta Masina, sua moglie.
“La dolce vita” descrive la vita romana negli anni ’50. Fellini usa molto le grandi scene di massa, i carnevali, con moltissime comparse: la ritualità è una caratteristica dei suoi film. “Il bidone” è un altro suo film. Fellini ebbe in vita il riconoscimento della sua fama. A partire da “La dolce vita” Fellini gira quasi tutto in studio, a Cinecittà. In questo film si rappresentano molti aspetti della vita romana, come quello della nobiltà in decadenza. Il film di Sorrentino “La grande bellezza” si è probabilmente ispirato a “La dolce vita” di Fellini nella descrizione dello stesso mondo vacuo. Fellini, per questa rappresentazione negativa della borghesia, è osteggiato dalla D.C., mentre piace alle sinistre per quanto Fellini non sia stato né un autore politico, né di sinistra. “La dolce vita” è comunque il suo film più vagamente politico. Seguì una fase di crisi e depressione personale del regista, che frequentò uno psicoanalista di scuola junghiana che viveva a Roma: è la crisi che alla fine lo porterà a realizzare “8 ½“ nel 1963, nel quale inserisce anche la madre. Con questo film Fellini vuole descrivere quella conflittualità che ognuno di noi ha dentro: “La grande confusione” doveva infatti essere il titolo originario del film. Nella scena finale il regista richiama tutti i personaggi. “8 ½“ è considerato uno dei primi 5 o 10 film più grandi della storia del cinema. “Block notes di un regista” è un suo documentario autobiografico, mentre “Giulietta degli Spiriti” è un successivo film ancor più legato al mondo dell’inconscio, è il suo primo film a colori.
Il mondo felliniano è permeato di un “realismo magico”, con morti che rivivono, sorrisi ed espressioni indecifrabili, che ricordano il cinema di Luchino Visconti, per quanto quest’ultimo sia più raffinato, ma anche più realistico. Del 1969 è “Fellini Satyricon”, in cui si rappresenta un mondo che va allo sfacelo, con gente ridotta a mangiare il cadavere dell’amico pur di avere la ricchezza. Del 1973 è il celeberrimo “Amarcord”. Il regista morirà nel 1993, all’età di 73 anni.

11 – C. Th. Dreyer. “Dies irae”. 13 gennaio 2017.
Carl Theodor Dreyer nasce nel 1889 forse a Copenhagen e muore nel 1968, figlio di una domestica, di umile famiglia. Ha realizzato 6 cortometraggi, di cui 5 documentaristici, negli anni ’40, e 13 lungometraggi, di cui solo 5 sonori. Debutta come giornalista, esattamente come critico cinematografico. Nel 1953 ottenne dallo Stato danese la direzione del cinema di Copenhagen.
Temi ricorrenti dei suoi film sono quelli dell’angoscia, della religione, dei sensi di colpa, del peccato, in senso luterano e kierkegaardiano: sono questi anche temi autobiografici, tipici del cupo ambiente danese. Negli anni ’30, come regista, non ha successo, e persino un capolavoro come “La passione di Giovanna d’Arco” avrà successo soltanto negli anni ’50. Come regista, inizia a lavorare con la casa di produzione “Nordiks film”, prima è sceneggiatore, poi regista. “Pagine dal libro di Satana” è un film articolato in 4 storie. “Dies irae” è un film ambientato nel 1633, durante i roghi alle streghe e l’inquisizione.; entrambi, come struttura e come tematiche, sono avvicinabili a “Intolerance” di Griffith. “La vedova del pastore” è una specie di ‘commedia nera’, mentre “Michael” è la storia di un pittore che s’innamora del suo giovane modello. “L’angelo del focolare” parla di un rapporto conflittuale tra moglie e marito, sullo stile di “Mariti e mogli” di Woody Allen; è un film commedia di Dreyer che ha maggiore successo rispetto ai precedenti. “La passione di Giovanna d’Arco” è un film del 1928: particolare la descrizione degli strumenti di tortura; il film è girato in Francia e Dreyer studia i verbali del processo. La protagonista era un’attrice di teatro, della “comedie francaise” .Del 1931 è “vampyr”, girato sempre in Francia, in luoghi reali. C’è una specie di “danza delle ombre”, che conferisce al film un senso di mistero, sulla scia del cinema espressionista tedesco, sullo stile di “M., il mostro di Dusseldorf”. L’ombra è il simbolo dell’ “inquietante”. In tutto “Vampyr” ci sono circa soltanto 300 parole, il film è quindi quasi interamente muto, mentre un ruolo dominante è svolto dalla musica. Nel 1932 si reca in Inghilterra, ove collabora ad una grande scuola documentaristica. Segue un periodo di depressione del regista, dovuto alla malattia della figlia, la sifilide, ed a problemi economici. Su incarico del governo danese, nel 1942 gira un breve documentario sulle ragazze madri e si mantiene scrivendo recensioni. Nel 1943, durante la guerra, gira “Dies irae”, altro suo capolavoro. Il film nasce come opera teatrale: è la storia di un anziano pastore luterano che ha sposato una giovane ragazza, che vive in casa insieme al pastore ed a sua madre, una donna rigida ed oppressiva, che non ha accettato la giovane nuora. Ma il giovane figlio del pastore torna a casa e s’innamora della matrigna. Morto il pastore, la vecchia madre accusa la nuora di averlo portato alla morte: la giovane non rinnega di essere stata la causa della morte dell’anziano marito, che aveva dovuto sposare per far salvare sua madre dal rogo, ed accetta di finire bruciata come eretica. Ricorda il film “Gostanza da Libbiano”, il caso reale, di una strega di San Miniato, studiato dallo storico Franco Cardini. La macchina da presa si muove lentamente durante tutto il film, il rapporto tra bene e male è identificato in quello tra luce ed ombre. Il film, appena esce, è un fiasco totale. In seguito Dreyer va in Germania, ove gira un altro film, durante il nazismo. In seguito, su incarico del governo danese, gira 5 documentari ed un cortometraggio, “E presero il traghetto”. Nel 1953 ottenne la direzione del cinema di Copenhagen ed inizia così, molto tardi, la sua sistemazione economica: nel 1955 gira il suo penultimo film, “Ordet” (“La parola”), ambientato in un paesino del nord della Danimarca, in cui è ancora presente l’ossessione del senso di colpa e della religione. In una famiglia, uno dei figli studia teologia, ma impazzisce e si crede la reincarnazione di Gesù; bellissime sono le immagini naturalistiche della brughiera. “Gertrud” è il suo ultimo film, che esce a Parigi nel 1964 e riscuote un immenso successo di pubblico, grazie anche all’entusiastico giudizio di Godard: narra di una donna sposata che vive un rapporto di estraneità con il marito, con il quale non si guarda neanche quasi mai in volto. I due sposi sono solo “accostati”, senza alcuna manifestazione di affetto. Questo film ha reso Dreyer un regista di successo, ma l’autore morirà solo appena 4 anni dopo, nel 1968, all’età di 79 anni.

12 – A. Kurosawa . 20 gennaio 2017.
Akira Kurosawa è un gigante della storia del cinema; di origine nobile, era figlio di un generale, un samurai esperto e maestro di arti marziali. Fisicamente, Akira è un energumeno: il padre, persona rigidissima, lo addestra nel kendo, ma anche alla lettura, al teatro, alla visione dei grandi classici del cinema, come anche il fratello di Akira. Grazie al fratello, di qualche anno più grande, Akira legge Doestoevskij, i classici della letteratura russa, Shakespeare: molto forte è il rapporto con il fratello. Come Fellini e Linch, Kurosawa si cimenta come pittore e diventa un bravo pittore. Alla fine degli anni ’20 frequenta ambienti comunisti, negli anni ’30 il sonoro arriva anche in Giappone, il fratello di Akira perde il lavoro e si uccide violentemente: Akira ne risentirà profondamente.
A metà degli anni ’30 collabora con il regista Yamamoto, che considera suo maestro.
Nella II guerra mondiale si rompono i rapporti tra Giappone e U.S.A. ed in Giappone si girano film patriottici, che esaltano i kamikaze.
Insieme ad Ozu ed a Mizobugi, Kurosawa fa parte di una triade di grandi registi giapponesi, ma Kurosawa è sicuramente il più premiato, ottiene infatti vai oscar ed il Leone d’Oro di Venezia; è anche il regista più aperto al cinema europeo.
Nel 1943 gira il suo primo film, “Sugata Sanshiro”, che parla dell’omonimo campione di judo, che si chiamava Sanshiro Sugata (in giapponese si usa prima il cognome). Nel 1948 gira “L’angelo ubriaco” ed iniziano i suoi capolavori, come “Cane randagio” (1949), con Toshiro Mifune, protagonista di molti film di Kurosawa. Sono anni, per il Giappone, di una terribile crisi economica, dopo le bombe atomiche. Con “Rashomon” (1950) diventa un regista famoso nel mondo: è la storia di un samurai, che alla fine muore. Seguono 11 film di altissimo, come “Vivere” (1952) e “I cattivi dormono in pace” (1960). Kurosawa fa propri tutte le tematiche dei vari generi cinematografici, ivi comprese quelle europee e quelle sociali, relative alla vita dei poveri e dei contadini., è quindi un regista anche impegnato nel sociale. “Vivere” parla di un impiegato del comune di Tokio, che, andato in pensione, si ammala di tumore, ma nell’ultimo anno di vita che gli resta decide di lottare per una causa giusta, quella contro la burocrazia, dietro la quale si era volutamente nascosto durante la sua squallida ed opportunistica vita impiegatizia; il film è una moderna satira della burocrazia. Nel 1951 aveva realizzato “L’idiota”, tratto dal romanzo di Doestoevskij, ma andato irrimediabilmente perduto.
Del 1957 è “I sette samurai”, girato nel nord del Giappone, è un film storico che dura quasi 4 ore: parla delle lotte sociali di un gruppo di contadini che chiede aiuto ai samurai contro le angherie di una banda di malviventi; è un grande film epico, da alcuni critici francesi paragonato all’ Iliade. I samurai decidono di combattere per i contadini in cambio di una ciotola di riso, non per la ricompensa, quindi, ma per un ideale di giustizia. E’ un film, anche, di altissimo spessore morale: alla fine i samurai debellano i banditi, anche subendo alcune perdite. I samurai sono concentrati nel loro compito: emerge anche il tema della concentrazione ripreso dal buddismo zen. Del film è stata realizzata anche una versione ridotta, ma carente nell’analisi dei personaggi e criticata dallo stesso regista; nel film integrale, grandioso è il monologo di Mifune. I contadini sono stati addestrati dai samurai ed alla fine tutti, contadini e samurai, combattono insieme; questa lotta unitaria ricorda il western “I magnifici sette”, che tratta però il tema in modo molto più superficiale.
Del 1957 è “Il trono di sangue”, una versione giapponese del Macbeth di Shakespeare, sempre con Mifune; del 1958 è “La fortezza nascosta”, paragonata da alcuni all’ Orlando furioso ariostesco. Parla di un signore feudale; fortissimo è il dinamismo del combattimento a cavallo, che ricorda “Il vento e il leone” con Connery, di un quindicennio successivo. Il combattimento con Mifune è descritto come un rito.
Kurosawa utilizza anche, in alcuni suoi film, musica classica europea, come il “Bolero” di Ravel, presente in “Rashomon”.
Del 1961 è “Yojimbo” (il titolo italiano è “La sfida del samurai”), che, parlando di un samurai “girovago” e “disoccupato”, ha dato vita al western all’italiana. Del 1962 è “Sanjuro”, che costituisce un dittico con “Yojimbo”.
A differenza di altri grandi autori della storia del cinema, Kurosawa ebbe la soddisfazione di assistere, in vita, al suo enorme successo.
“Anatomia di un rapimento” parla di un ricchissimo capitalista che si trova nel dilemma morale se pagare il riscatto per il rapimento del figlio del suo autista o fare un investimento: opterà per la prima soluzione. Il rapitore viene infine arrestato e giustiziato.
Del 1965 è “Barbarossa”, un film di impegno sociale, che parla di un medico che ha realizzato un ospedale per poveri.
In seguito l’attività del regista rallenta molto ed alla fine degli anni ’60 fonda una società cinematografica insieme ad altri registi, che prende il nome de “I quattro cavalieri”. “Dodes’ka-den” è il suo primo filma colori, sempre ambientato tra i poveri, che vivono in baracche e capanne: parla di 8 storie, tra cui quella di un bambino disabile; il titolo del film ha un valore onomatopeico in quanto imita il suono delle rotaie del tram. Il film è però un fallimento totale e nel 1971 Kurosawa tenta il suicidio, ma viene chiamato in Russia e torna ad essere un regista di successo; gira un film in Siberia, poi un altro film a colori, “Ran”, una rielaborazione di Re Lear di Shakespeare ambientato sul monte Fuji.
In seguito Francis Coppola e Steven Spielberg lo chiamano in America e negli anni ’80 gira due bellissimi film. “Sogni” è un altro suo bellissimo film, del 1990. “Rapsodia d’agosto” e “Madadario” sono i suoi due ultimi film: “Madadario” parla di un professore in pensione i cui studenti continuano a festeggiargli il compleanno (“Madadario” significa infatti “compleanno”). Kurosawa morirà nel 1998, all’età di 88 anni.

13 – F. Truffaut. “Jules e Jim”. 27 gennaio 2017.
Truffaut ha aperto la strada al rinnovamento cinematografico francese nella prima metà degli anni ’60; è un rinnovamento che in Francia prende il nome di “Nouvelle Vague” e che si afferma anche in Cecoslovacchia, nell’Europa dell’est ed in Germania. E’ un rinnovamento che guarda alla realtà ed in questo senso è debitore a Rossellini ed al Neorealismo italiano: Rossellini è infatti l’autore più vicino alla Nouvelle Vague francese, che criticava profondamente il cinema tradizionale, sentimentale e borghese, sia pure senza rinunciare alle emozioni (Truffaut è un autore che vive di emozioni). Anche se meno sperimentatore di Godard, Truffaut è l’autore più amato e rappresentativo della Nouvelle Vague.
Francois Truffaut, fin da bambino, è poco amato dai genitori, e questo produce in lui un carattere irrequieto, come si evince dal film “I 400 colpi”, in parte autobiografico. Il film parla infatti di un bambino di 13 anni, Antoine, poco amato dai genitori e con un pessimo profitto a scuola, come lo stesso Truffaut, che all’età di 16 anni viene infatti portato in riformatorio per un anno. Il ragazzo fugge dal riformatorio, con una lunga fuga, che tuttavia termina quando arriva al mare, che non può certo attraversare: il film si chiude con lo sguardo sfiduciato del ragazzo, quasi a voler significare che non c’è salvezza dal dolore, e questo rispecchia la concezione pessimistica della vita propria dell’autore. Cinema, musica e libri sono le grandi passioni di Truffaut fin da ragazzo: il film “Fahrenheit 451”, un film in cui il regista si cimenta anche con il genere fantascientifico, testimonia proprio questo amore per i libri. “Gli anni in tasca”, degli anni ’70, racconta i problemi di un gruppo di ragazzi di 14 anni. “Il ragazzo selvaggio” parla invece di un caso reale, quello di un fanciullo selvaggio trovato nella foresta francese dell’Aveyron alla fine del ‘700 e educato dal suo nuovo tutore, il dottor Itard, che riuscirà a inculcargli l’idea del bene e del male e a dimostrare che il selvaggio è recuperabile.
Truffaut si arruola per combattere in Indocina, ma poi fugge, diventa disertore, viene arrestato, in seguito liberato; scrive molti articoli sul cinema francese ed americano, su autori come Hitchcock e John Ford. Realizza inizialmente 3 cortometraggi, “I 400 colpi” è invece il suo primo lungometraggio. Spesso l’autore fa “dialogare” i suoi film, tra i quali vi sono vari riferimenti, come ”Antoine e Colette” e “Baci rubati” (1968), quest’ultimo prosecuzione del precedente, in cui Antoine è sempre il protagonista, ripreso in un’età più adulta. “Tirate sul pianista” (1960) è un film in cui si notano elementi quasi western. Il film è tratto da un noir americano, come “La sposa in nero”, che racconta di una donna che resta vedova il giorno delle nozze, quando esce di Chiesa, perché il marito viene casualmente colpito da un proiettile di un fucile appena comprato da un gruppo di persone che lo stavano maneggiando su un balcone vicino; la donna si vendicherà uccidendo, uno ad uno, tutti gli uomini, con una tecnica hitchcockiana. “La sirena del Mississippi” è una folle storia d’amore, con Jean Paul Belmondo e Catherine Deneuve, che sarà anche un’amante di Truffaut, che avrà molte storie sentimentali nella sua vita, ma tutte finite male (spesso s’innamorava delle attrici dei suoi film). Anche il rapporto d’amore è concepito in chiave pessimistica, come appare in “Jules e Jim” (1962), tratto da un libro che il regista aveva casualmente comprato su una bancarella della Senna. “Le due inglesi e il continente” è un film costruito come un epistolario e, sul piano delle vicende, è l’inverso di “Jules e Jim”. “La pelle dolce” è la storia di un uomo maturo, studioso di Balzac (che è stata una lettura di cui l’autore era innamorato, amore che riversava a tutti i realisti francesi, che aveva letto) che si separa dalla moglie per un’altra donna, ma il nuovo rapporto finisce male ed il marito vuole tornare dalla moglie, che però, appena lo vede, lo uccide. In “L’uomo che amava le donne”, al funerale di un uomo si ritrovano tutte le donne che il defunto ha avuto in vita, anche se, in realtà, ha avuto un solo grande amore, che però lo ha abbandonato. “La signora dalla porta accanto” è il suo penultimo film, costruito anche questo come un ricordo: i flash-back e l’artificio del monologo interiore sono molto ricorrenti in Truffaut. “Finalmente domenica” è il suo ultimo film, prodotto l’anno della morte, il 1952, morte avvenuta quando Truffaut ha poco più di cinquant’anni, a causa di un tumore al cervello.

14 – M. Scorsese. 10 marzo 2017.
Martin Scorsese nasce in America nel 1942, appartiene alla New Hollywood, periodo compreso il 1967 (anno di uscita de “Il laureato” e di “Western story”, del 1969 è “Easy reader”) ed il 1989 (anno in cui esce “I cancelli del cielo”, un totale disastro economico, costato 40 milioni di dollari con un incasso di soli 4). E’ un autore contemporaneo, vivente. In Scorsese si ritrovano anche elementi della Nouvelle Vague, mentre dall’espressionismo tedesco riprende i giochi di ombre. E’ solito “introdurre” i suoi film con una specie di “documentario” animato da una voce narrante, come si evince da “Casinò”. Appartiene ad una generazione di autori che arriva al cinema non “facendo la gavetta” sul set, come John Ford, ma dall’Università, come David Linch. E’ figlio di immigrati siciliani, è di famiglia quindi modesta, vive nella Little Italy di New York, in ambienti malfamati.
Debutta nel 1967 con “Chi sta bussando alla mia porta?”. Voleva farsi sacerdote: in lui si ritrovano infatti il senso del peccato e della colpa, come si evince da “L’ultima tentazione di Cristo”, “Kundun” e Taxi driver”. Conosce i grandi autori del neorealismo italiano (fu un grandissimo ammiratore di Rossellini), dell’espressionismo tedesco e del cinema sovietico degli anni ’20, come Ejzenstejn. Il periodo della New Hollywood è anche quello delle battaglie per i diritti civili, l’integrazione razziale, contro la guerra in Vietnam; si scopre il West non nella sua epopea eroica, ma nella sua cruda realtà, quella di un genocidio. Diventa amico di Francis Coppola, con il quale collabora, come anche con Nicholson. Anche Spielberg debutta in questi anni. Gli eroi classici vengono ora ridicolizzati, come nella serie di film di Indiana Jones, diretta da George Lucas. Nel 1973 debutta per la prima volta Robert De Niro, che diventerà uno dei protagonisti dei film di Scorsese, che nel 1973 è già un autore famoso.
Del 1976 è “Taxi driver”, forse il suo film più celebre: è un totale rovesciamento dell’eroe hollywoodiano degli anni ’30, che sa sempre fare la cosa giusta al momento opportuno, come John Wayne. Proficua fu la collaborazione con il produttore Robert Evans. Il romanzo filosofico La nausea di Sartre, gli esistenzialisti, lo stesso Dostoevskij influenzano il cinema di Scorsese. Anche Godard ha avuto influenza su Scorsese, come si evince proprio da “Taxi driver”: il protagonista è spesso ripreso lateralmente, mentre in primo piano appaiono oggetti insignificanti, è la tecnica del “decadrage”, “decentramento”. “Taxi driver” vince la “Palma d’oro” a Cannes ed è candidato all’oscar.
Con “New York, New York” (1977), tutto girato in studio, l’autore offre il suo omaggio al musical, anche se ha scarsissimo successo.
“Il colore dei soldi” (1986) illustra una serie di partite da biliardo, ognuna girata con stile diverso dall’altra; spesso gira anche documentari come omaggi alla musica; fu infatti un grande ammiratore di Bob Dylan, del Blues, del Jazz, dei Rolling Stones, come si evince da “L’ultimo walzer”.
Del 1980 è “Toro scatenato”, considerato dalla critica il film più bello degli anni ’80, mentre del 1983 è “Re per una notte”, con Jerry Lewis, del 1985 è “Fuori orario”, in cui il protagonista è trasformato in una statua di vetro che ricorda “L’urlo” di Munch, è un film girato con pochi soldi, ma molto originale, con moltissimi colpi di scena.
Del 1988 è “L’ultima tentazione di Cristo”, un film progettato da anni, fortemente religioso, ma che si rivela un insuccesso.
Del 1990 è “Quei bravi ragazzi”, che ricorda il mondo della “Little Italy”, mentre del 1993 è “L’età dell’innocenza”, un film in costume con ambientazione aristocratica newyorkese del primo ‘900.
Del 1996 è “Casinò”, ambientato nei casinò di Las Vegas, il cui unico scopo è quello di accumulare soldi; si ritrae il mondo artificiale e assurdo di Las Vegas, una città di luci nel deserto. E’ forse il film più fantasmagorico di Scorsese.
Del 1998 è “Kundun”, del 1999 “Aldilà della vita”, che narra la storia di una persona che vive sulle ambulanze a New York. Del 2002 è “Gangs of New York”, girato a Cinecittà, con Leonardo DiCaprio, che è stato protagonista di alcuni ultimi film di Scorsese.
Del 2006 è “The departed”, seguito da un documentario sui Rolling Stones del 2008.
Infine, del 2016 è “Silence”, in cui ritorna lo spirito religioso de “L’ultima tentazione di Cristo”, parla di missionari cattolici nel Giappone del ‘600.

CIAK SI GIRA. GRANDI AUTORI DELLA STORIA DEL CINEMAultima modifica: 2017-03-17T17:55:19+01:00da m_200
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