Stato senza nazione: dibattito su un Risorgimento fallito

Marco Martini

Stato senza nazione: dibattito su un Risorgimento fallito

ANNO ACCADEMICO 2017/18
CONSORZIO INTERNAZIONALE EUROPEO INTERUNIVERSITARIO:
Università di Roma “La Sapienza”- Bournemouth Polytechnic (UK)
Università degli Studi di Udine – Università degli Studi di Foggia
Università degli Studi del Molise – Università degli Studi di Torino
Università degli Studi di Cassino – Università degli Studi di Camerino
Università degli Studi di Sassari – University of Chester (UK)
Università degli Studi “Guglielmo Marconi” – Università degli Studi di Bari
Universitatea “Ovidius” di Constanta (Romania)

CORSO ANNUALE POST-LAUREAM DI PERFEZIONAMENTO IN CITTADINANZA E COSTITUZIONE (MASTER DI I° LIVELLO) – SIGLA SETTORE DISCIPLINARE: “EDC”

TESI DI PERFEZIONAMENTO IN “STORIA DEL RISORGIMENTO”

“STATO SENZA NAZIONE: DIBATTITO SU UN RISORGIMENTO FALLITO”

PERFEZIONANDO: DOTT. MARCO MARTINI
ID. MATRICOLA N° 00254A18 – 1500 ORE DI STUDIO – 60 C.F.U.
DOCENTE TUTOR : CHIAR. MA PROF. SSA DANIELA DI MARCO

INTRODUZIONE

Duplice è lo scopo del presente lavoro: da un lato ripercorrere la storia costituzionale dei Paesi che, in età moderna, hanno marcato il processo democratico, dall’altro concentrarsi sulle carte costituzionali, tutte “octroyée”, ovvero “concesse” dall’alto, dai sovrani (più o meno “illuminati”), che si sono succedute nel Risorgimento europeo in generale ed italiano in particolare. La tesi si articola in un’introduzione, che mira ad esplicitare il piano dell’opera, e in tre capitoli, disposti con sequenza cronologica, per poi approdare alle necessarie conclusioni.
Il primo capitolo, pertanto, inizierà lo studio dalla “Bill of Rights”, la “Dichiarazione dei Diritti” che, nel 1689, dopo la “Glorious Revolution” (così definita perché avvenuta senza spargimento di sangue, ma con la fuga dell’ultimo monarca assoluto, Giacomo II Stuart) dell’anno precedente, ha fatto dell’Inghilterra la prima monarchia costituzionale del mondo. Si procederà l’analisi con la disamina sia della “Dichiarazione d’indipendenza americana” del 4 luglio 1776 che della Costituzione americana del 1787, per vedere come questi due testi abbiano costituito un vero e proprio “ponte” verso la “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino”, emanata in Francia il 26 agosto 1789 e le tre Costituzioni promulgate durante la Rivoluzione francese, rispettivamente nel 1791, nel 1793 ed infine nel 1795.
Nel secondo capitolo l’attenzione si volgerà al Risorgimento, iniziando con la “Costituzione spagnola di Cadice” del 1812, modello per tante carte costituzionali del Risorgimento e meta alla quale guardavano molti patrioti del primo Ottocento; il lavoro proseguirà passando in rassegna la “Dichiarazione d’indipendenza greca” (15 gennaio 1822), il “Manifesto russo dei Decabristi” (dicembre 1825) e la Costituzione belga del 1831, particolarmente importante per quanto concernono gli influssi sulla Costituzione repubblicana italiana odierna, rimasta in auge dopo il fallito referendum costituzionale del dicembre 2016. Di seguito l’elaborato si concentrerà sul dibattito storiografico sul Risorgimento e lo “Statuto fondamentale del Regno di Sardegna”, meglio noto come “Statuto albertino”, proclamato dal Re di Sardegna Vittorio Emanuele II (non ancora, infatti, re d’Italia), emanato il 3 marzo 1848 dal ministro Borelli ed entrato in vigore il giorno successivo, per rimanere, come “Carta costituzionale” d’Italia fino al 31 dicembre 1947, dal momento che la nostra Costituzione repubblicana entrerà a regime soltanto il 1° gennaio 1948. Lo “Statuto” permarrà dunque anche durante la dittatura fascista, e proprio a causa del suo carattere “flessibile” e non “rigido ” sarà piegata facilmente alle esigenze del regime. A seguire lo studio della “Costituzione della Repubblica Romana” del 1849, mai entrata in vigore (perché al momento della sua promulgazione il papa Pio IX rientrerà a Roma con la scorta dei soldati di Luigi Napoleone Bonaparte, presidente della Repubblica francese e futuro imperatore con il nome di Napoleone III). E’, questo secondo capitolo, centrale nella tesi, sicuramente il più importante dell’intera opera, in quanto mirerà ad evidenziare, all’interno del dibattito risorgimentale, come si possa veramente parlare dell’Italia come appunto di uno “Stato senza nazione”, proprio a causa del fallimento del Risorgimento, in linea con l’interpretazione gramsciana di un “Risorgimento fallito ed incompiuto” e con la nota frase dello storiografo federalista Massimo D’Azeglio “L’Italia è fatta, ma bisogna ora fare gli italiani”, vale a dire farli sentire non soltanto abitanti di una medesima penisola, ma membri attivi di uno Stato unitario e quindi tutti rispettosi delle stesse leggi, in modo che non possano ripetersi affermazioni profondamente offensive, come pronunciata dal cancelliere austriaco Von Metternich al Congresso di Vienna (1814-15) circa l’Italia come “espressione geografica”. Non fu infatti, il nostro, un Risorgere sol di fanfare, pive, tamburi e trombette, ma un animoso scoppiettar di moschetti, cannoni e un cozzar di brandi!!
Il terzo capitolo tratterà i problemi concernenti la transizione dallo Statuto albertino alla Costituzione repubblicana.
Infine m’accingerò alle considerazioni conclusive, appropinquandomi alla disamina della Costituzione repubblicana, il tutto correlato da ricca bibliografia (sia inerente alle fonti storiche primarie che secondarie o “letteratura critica”), italiana ed europea, filmografia ed esplicative note a piè di pagina; non mancheranno, dato lo “scottante” contenuto politico, accenti talvolta polemici, talaltra retorici, ma di una sana retorica, sempre eretta su solidi principi, orsù, di etica patriottica!!
Voglio, in ultimo, precisare che questo studio viene alla luce in un anno, il 2018, nel quale ricorrono 70 anni dall’entrata in vigore della nostra Costituzione repubblicana, e s’inserisce nel più ampio carosello di manifestazioni culturali, eventi, conferenze, convegni, seminari, relazioni e lezioni che hanno impegnato il mondo politico ed accademico italiano da un lato a celebrarne il valore, ma più che altro a discernere, appunto 70 anni dopo, per usare un’espressione tanto cara a Benedetto Croce, “ciò che è vivo da ciò che è morto” nella nostra Carta costituzionale.
Dedico questo lavoro alla memoria del Chiar. mo Prof. emerito Salvo Mastellone, ahimè scomparso alcuni anni or sono, novantaduenne, già mio maestro al primo Corso annuale di Perfezionamento post-lauream in “Storia medioevale, moderna e contemporanea”, da me seguito presso il prestigioso Ateneo fiorentino nel lontano anno accademico 1988/89, ed alla memoria del Chiar. mo Prof. Claudio Pavone, recentemente scomparso, ahi, all’età di 96 anni, non ancora, per un sol giorno, compiuti, uomo della Resistenza innanzitutto, ma non di manco anche grande archivista ed insigne docente, che ho avuto l’onore di seguire in vari convegni storici e che mi ha illuminato in suo seminario, tenuto presso il celeberrimo ’”Istituto Italiano di Studi Filosofici” di Napoli molti anni or sono, inerente la transizione dallo Statuto albertino alla Costituzione repubblicana. Liberale crociano il primo, marxista critico il secondo, ma entrambi uomini temprati da virili propositi, dall’audacia nell’ardore della Resistenza e dalla memoria della guerra! Ricordi vivissimi, pur non senza, ohibò, spargimento di lacrime!!!
Saluto e ringrazio il Prof. Zeffiro Ciuffoletti, storico di parte liberale, mio docente di storia contemporanea nel medesimo sopracitato Corso e docente di storia del Risorgimento in numerosi corsi da me frequentati presso il Circolo Culturale “Angelo Corsetti” di Pietrasanta.
Colgo l’occasione per salutare tutti gli amici, i colleghi di altre discipline, di materie affini e dei miei stessi insegnamenti, i miei studenti, di ieri, di oggi e di domani, con i quali mi pregio di coltivare rapporti culturali ed umani anche quando, da anni, sono giunti al termine dei loro studi.
E’ mio intento ringraziare anche le tredici celeberrime Università ivi consorziate, delle quali dieci italiane e tre europee (due inglesi ed una romena), da me menzionate nel frontespizio-copertina, per l’ineccepibile organizzazione didattica dei Corsi e per avermi offerto l’occasione di un sì alto quanto imperdibile momento formativo!
Un ringraziamento, infine, alla Chiar. ma Prof. ssa Daniela Di Marco per l’assistenza fornitami, con costante cordialità, nella stesura di questo lavoro.
Orbene, in conclusione, voglio dedicare questa personale ricerca ai miei studenti, ché la loro sete di conoscenza è sorgente inesauribile della mia.
Viareggio (Lucca), Anno Accademico 2017/18. Marco Martini
CAPITOLO I°: DALLA “BILL OF RIGHTS” ALLA “COSTITUZIONE DELL’ANNO III°”.

I.1. La “Magna Charta Libertatum” (1215) e la “Bill of Rights” (1689): le origini del costituzionalismo inglese.
Dopo la “Glorious Revolution” del 1688, sul trono d’Inghilterra fu chiamato un olandese, Guglielmo III d’Orange, a patto che sottoscrivesse una dichiarazione, la “Dichiarazione dei Diritti” ( “Bill of Rights”), firmata nel 1689, in cui si ponevano i limiti dell’autorità regia e si ribadiva la validità della Costituzione ed il rispetto del Parlamento. Si passò così in Inghilterra da una monarchia assoluta ad una monarchia costituzionale, che non significò però democrazia, poiché sono elettori solo i ricchi borghesi e gli alti prelati, e non tutto il popolo: la “Glorious Revolution” segnò pertanto soltanto il trionfo della borghesia.
L’Inghilterra fu la prima monarchia costituzionale della storia europea e mondiale: si negò l’origine divina del potere monarchico, che era stata a fondamento di tutta la teocrazia medievale. I filosofi Voltaire e Montesquieu, nella Francia illuminista del ‘700, esalteranno la “Bill of Rights” del 1689 definendo l’Inghilterra come il Paese più libero e felice al mondo; nelle sue Lettere sugli inglesi, pubblicate nel 1733, Voltaire scrisse che un inglese era talmente libero da poter andare “in paradiso per la strada che più gli piace” . In Inghilterra ognuno poteva dire o pubblicare quel che voleva perché non esistevano torture, né prigionia arbitraria.
I nobili, i religiosi, i laici ed i borghesi (sia la Camera dei Lords, quindi, che quella dei Comuni) conferiscono rispettivamente a Guglielmo III d’Orange ed a sua moglie Maria i titoli di re e di regina d’Inghilterra, fiduciosi nell’opera di liberazione dagli Stuart avviata da Guglielmo III.
Nel documento si legge che senza il consenso del Parlamento è illegale sospendere o fare eseguire le leggi ed imporre tasse in favore della Corona e che l’elezione del Parlamento dev’essere libera e dev’essere garantita la libertà di espressione e di stampa; nel testo si afferma anche che è illegale mantenere un esercito in tempo di pace senza il consenso del Parlamento e che per tutelare la libertà dei cittadini è opportuno che il Parlamento si riunisca spesso .
Bisogna infine sottolineare l’importanza dell’antica tenace tradizione parlamentare inglese, risalente all’epoca della “Magna Charta Libertatum” del 1215: la vecchia tradizione dell’Inghilterra, scrive il Fisher , era parlamentare. Il documento medievale constava di 63 articoli e rappresentava la promessa di rispettare le antiche libertà d’Inghilterra. Non fu infatti una proclamazione d’intenti, ma una precisa elencazione di particolari libertà che il potere sovrano s’impegnava a non violare; fu un testo che limitò, di fatto, il potere regio di Giovanni Senza Terra, pur senza essere, ovviamente, una costituzione, e lo limitò nei confronti dei nobili, dei sudditi ed anche della Chiesa inglese. Si consideri ora il testo:
“[9] La Città di Londra godrà di tutte le sue antiche libertà e libere consuetudini. Noi vogliamo anche che tutte le altre città, borghi, villaggi, in baroni dei cinque porti e tutti i porti godano di tutte le loro libertà e libere consuetudini.
[10] Nessuno sarà costretto a un servizio più oneroso di quel che non debba il suo feudo militare od ogni altra libera dipendenza […].
[14] Un uomo libero non potrà essere colpito da ammenda per un piccolo delitto che proporzionalmente a questo delitto; non potrà esserlo per un grande delitto che proporzionalmente alla gravità di questo delitto, ma senza perdere il suo feudo. […].
[29] Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, spossessato della sua dipendenza, della sua libertà o libere usanze, messo fuori della legge, esiliato, molestato in nessuna maniera, e noi non metteremo né faremo mettere la mano su di lui, se non in virtù di un giudizio legale dei suoi pari e secondo la legge del paese.
Noi non venderemo, né rifiuteremo o differiremo a nessuno il diritto o la giustizia.
[30] Tutti i mercanti potranno, se non ne avranno anteriormente ricevuto pubblico divieto, liberamente e in tutta sicurezza uscire dall’Inghilterra e rientrarvi, soggiornarvi e viaggiarvi, sia per terra che per acqua […] .
La “Bill of Rights”, già commentata precedentemente e della quale ora vedremo il testo, decreta la fine dell’assolutismo in Inghilterra :
“I Lords Spirituali e Temporali e i Comuni […] dichiarano:
Che il preteso potere di sospendere le leggi, o l’esecuzione delle leggi, per autorità regia, senza il consenso del Parlamento, è illegale.
Che il preteso potere di dispensare dalle leggi, o dall’esecuzione delle leggi, per autorità regia, come è stato affermato ed esercitato recentemente, è illegale […].
Che imporre tributi in favore o ad uso della corona, per pretese prerogative, senza l’approvazione del Parlamento, per un periodo più lungo o in altra maniera che lo stesso Parlamento non ha e non avrà concesso, è illegale .
Che i sudditi hanno il diritto di petizione al Re ed ogni incriminazione o persecuzione per tali petizioni sono illegali.
Che riunire e mantenere nel Regno in tempo di pace un esercito stabile, se non vi è il consenso del Parlamento, è contro la legge […].
Che l’elezione dei membri del Parlamento deve essere libera.
Che la libertà di parola e di discussione e di stampa in Parlamento non deve essere impedita o contestata in nessuna corte o luogo fuori del Parlamento .
Che non devono essere richieste eccessive cauzioni, né ammende eccessive, né inflitte pene crudeli e inusitate […].
E che, per far giustizia di ogni gravezza e per emendare, rafforzare e preservare le leggi, le riunioni del Parlamento devono essere tenute frequentemente […].
Ed essi chiedono e domandano con insistenza l’osservanza di tutti e ciascuno dei predetti punti come loro indubbi diritti e libertà […].
Pienamente fiduciosi che Sua Altezza il Principe d’Orange vorrà perfezionare l’opera di liberazione da lui iniziata […] i detti Lords Spirituali e Temporali e i Comuni riuniti a Westminster stabiliscono che Guglielmo e Maria, Principe e Principessa d’Orange, sono dichiarati Re e Regina di Inghilterra, Francia, Irlanda e dei domini ad esse appartenenti” .

I.2. La “Dichiarazione d’indipendenza americana” (4 luglio 1776) e la “Costituzione degli Stati Uniti d’America” (1787): un ‘ponte’ verso la Francia.
La “Dichiarazione d’indipendenza americana” fu approvata dal Congresso il 4 luglio 1776, esattamente dal III° Congresso di Philadelphia o Congresso Continentale : costituì un modello ispiratore per la “Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino” del 26 agosto 1789, durante la Rivoluzione francese, e per tutte le democrazie. E’ un documento “principe” dell’Illuminismo. Stabilì il diritto dell’uomo alla felicità e i diritti inalienabili di ogni uomo; è un testo fondamentale nella storia del pensiero liberale e democratico, contro ogni assolutismo.
Il testo si può articolare in 3 parti: un’introduzione, 10 punti centrali rivolti contro il re d’Inghilterra Giorgio III ed una conclusione: la parte centrale del documento enuclea infatti dettagliatamente i torti del re inglese ed è pertanto un esplicito atto d’accusa nei suoi confronti.
Si afferma che è diritto di ogni popolo rompere i legami con un altro popolo quando questo lo opprime. Dio ha creato i governi per garantire la vita, la libertà e la felicità: è diritto del popolo rovesciare un governo che violi questi diritti ed eleggerne un altro che li tuteli e li rispetti. Il re d’Inghilterra ha instaurato una tirannide nelle colonie americane; non ha emanato leggi necessarie al bene comune ed ha sciolto assemblee che si erano riunite per vigilare sui diritti del popolo. Ha scoraggiato l’immigrazione nelle colonie allo scopo di indebolirle, ha assoggettato i giudici al suo arbitrio ed ha creato nuovi funzionari per vessare il popolo con le tasse e divorarne gli averi. Ha assoggettato le popolazioni delle colonie ad una costituzione straniera (quella inglese), abolendo i loro statuti. Ha impoverito i coloni, limitando il commercio con altre parti del mondo, ha invaso violentemente l’America, ha incoraggiato una guerra fratricida ed ha fomentato gli indiani pellerossa contro i coloni. Per tutti questi motivi Giorgio III si è dimostrato un tiranno che non ha diritto di governare un popolo che vuole essere libero. Inutilmente, si legge nel documento, gli americani hanno scongiurato le giubbe rosse inglesi dal compiere le barbarie imposte dal loro sovrano e despota dei coloni: i soldati del re sono rimasti sordi alle richieste della popolazione .
Pertanto, i rappresentanti delle colonie americane, riuniti in congresso, si appellano a Dio ed invocano la Divina Provvidenza per ribadire la volontà di costituirsi da colonie in Stati liberi, indipendenti e felici e per far questo è necessario rompere ogni vincolo con la madrepatria inglese e con la corona britannica. Si nota, nel testo, il ricorrente uso della categoria illuministica della “felicità”, che sarà usata ampiamente anche nella Dichiarazione francese del 26 agosto 1789 e nelle costituzioni durante la “Grande rivoluzione”. Consideriamo adesso il testo:
“Quando nel corso degli umani eventi si rende necessario ad un popolo sciogliere i vincoli politici […] un giusto rispetto per le opinioni dell’umanità richiede che esso renda note le cause che lo costringono a tale secessione.
Noi riteniamo […] che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità: che allo scopo di garantire questi diritti, sono creati fra gli uomini i Governi […] ; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di Governo tende a negare tali fini, è Diritto del Popolo modificarlo o distruggerlo, e creare un nuovo Governo, che si fondi su quei principi e che abbia poteri ordinati in quella guisa che gli sembri più idonea al raggiungimento della sua sicurezza e felicità. […].
Ma quando un lungo corteo di abusi e di usurpazioni […] svela il disegno di assoggettarli a un duro Dispotismo, è loro diritto, è loro dovere, di abbattere un tale Governo, e di procurarsi nuove garanzie per la loro sicurezza futura.
Tale è stata la paziente sopportazione di queste Colonie […].
La storia dell’ attuale Re di Gran Bretagna è una storia di ripetute offese ed usurpazioni, aventi tutte come obiettivo immediato l’instaurazione di una Tirannide assoluta su questi Stati. […].
Egli ha rifiutato di dare il suo assenso alle leggi più opportune e necessarie al bene pubblico. […].
Egli ha ripetutamente disciolto Assemblee Rappresentative che si erano riunite allo scopo di opporsi con virile fermezza alle sue violazioni dei diritti del popolo. […].
Egli ha tentato di impedire che questi Stati venissero popolati […], rifiutando inoltre di approvarne altre dirette ad incoraggiare la loro immigrazione in questo paese […].
Egli ha reso i Giudici dipendenti dal suo esclusivo arbitrio […].
Egli ha creato una moltitudine di nuove cariche, ed ha inviato in questo paese nugoli di funzionari destinati a tormentare il nostro popolo e a divorarne gli averi. […].
Egli si è accordato con altri allo scopo di assoggettarci ad una giurisdizione estranea alla nostra costituzione e sconosciuta alle nostre leggi […], ad interrompere il nostro commercio con tutte le parti del mondo […] ; a privarci dei nostri Statuti, abolire le nostre leggi più care […].
Egli ha saccheggiato i nostri mari, devastato le nostre coste, bruciato le nostre città e distrutto le vite della nostra gente.
Al momento presente, egli sta trasportando grandi eserciti di mercenari stranieri destinati a portare a compimento l’opera di morte, di desolazione e di tirannia già cominciata in circostanze di crudeltà e di perfidia che trovano appena paragone nelle più barbare età, e del tutto indegne del Capo di una nazione civile.
Egli ha costretto i nostri concittadini, catturati in alto mare, a portare le armi contro il nostro Paese, a diventare i carnefici dei loro amici e dei loro fratelli, o a cadere essi stessi per mano di questi.
Egli ha fomentato la rivolta al nostro interno ed ha tentato di far marciare contro gli abitanti delle nostre zone di frontiera gli spietati Indiani selvaggi, il cui ben noto metodo di guerra consiste nel massacro indiscriminato della gente di ogni età, sesso e condizione. […].
Un Sovrano, il cui carattere è contraddistinto da tutto ciò che può definire un Tiranno, non ha diritto a governare un popolo libero. Né abbiamo mancato di usare ogni attenzione nei confronti dei nostri fratelli inglesi. […].
Anch’essi tuttavia sono stati sordi alla voce della giustizia e della consanguineità […].
Noi pertanto, rappresentanti degli Stati Uniti d’America , riuniti in Congresso generale, appellandoci al Supremo Giudice dell’universo quanto alla rettitudine delle nostre intenzioni, solennemente proclamiamo e dichiariamo, in nome e per autorità dei buoni Popoli di queste Colonie, che queste Colonie Unite sono, e devono di diritto essere Stati liberi e indipendenti; che sono disciolte da ogni dovere di fedeltà verso la Corona britannica e che ogni vincolo politico fra di esse e lo Stato di Gran Bretagna è e dev’essere del tutto reciso; e che quali Stati liberi e Indipendenti, esse avranno pieno potere di muovere guerra, di concludere la pace, di stipulare alleanze, di regolare il commercio, e di compiere tutti quegli altri atti che gli Stati Indipendenti possono di diritto compiere. E a sostegno della presente Dichiarazione, con ferma fiducia nella protezione della Divina Provvidenza, noi offriamo reciprocamente in pegno le nostre vite, i nostri averi ed il nostro sacro onore” .
Il 21 febbraio 1787 il Congresso approvò la Costituzione degli Stati Uniti d’America, alla quale, nel corso degli anni e dei secoli, sono stati apportati vari emendamenti, ma nessuno ha mai pensato di stralciarla; anzi, gli americani sono tutt’oggi fieri della loro antica costituzione, la più antica del mondo ancora in vigore, Ne riportiamo alcuni articoli, attinenti la suddivisione dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, ispirata alla dottrina montesquieuana della tripartizione dei poteri, già formulata dall’illuminista francese ne L’esprit des lois del 1748 . Il primo è affidato al Presidente degli Stati Uniti, eletto ogni quattro anni, il secondo alle due Camere, il Senato e la Camera dei Rappresentanti, il terzo alla Corte Suprema.
Il Senato è costituito da due senatori per ogni Stato, per garantire così il principio di parità tra Stati di diversa estensione. Esso ha specifiche competenze in materia di politica estera. La Camera è invece eletta secondo il principio della proporzionalità e conta quindi un maggior numero di rappresentanti negli Stati più popolosi.
Successivamente all’entrata in vigore della Costituzione, vennero emanati degli emendamenti che sancivano la libertà di parola, stampa, riunione, fede religiosa: Gli U.S.A. rifiutarono il concetto di una “religione di Stato”, quindi di essere uno Stato confessionale, a differenza di quanto sarà invece esplicitamente sancito dal 1° articolo dello Statuto albertino in Italia. Rimase la schiavitù dei neri, che fu un problema lasciato alla decisione dei singoli Stati: la questione, almeno formalmente, si risolverà soltanto nel 1863, quando il presidente Abramo Lincoln abolirà la schiavitù. Altro problema fu quello degli indiani pellerossa, che dalla fine del ‘700 al primo ‘800 videro progressivamente restringersi i loro territori, fino ad essere confinati nelle riserve. Passiamo quindi al testo:
“ARTICOLO I
Sezione I. Tutte le competenze legislative qui previste saranno conferite a un Congresso degli Stati Uniti, composto da un Senato e da una Camera dei rappresentanti.
Sezione II. 1. La Camera dei rappresentanti sarà composta da membri eletti ogni due anni dal popolo dei vari Stati e in ciascuno di essi gli elettori dovranno avere i requisiti richiesti per l’elettorato attivo del ramo più numeroso dell’organo legislativo di quello Stato. […].
3. I rappresentanti saranno ripartiti – valido il principio anche per le imposte dirette – fra i diversi Stati che facciano parte dell’Unione in rapporto al numero rispettivo degli abitanti, da computarsi aggiungendo al totale delle persone libere – comprese quelle vincolate da un contratto a termine, ed esclusi gli indiani non soggetti a imposte – tre quinti dei resto della popolazione […].
Sezione III. 1. Il Senato degli Stati Uniti sarà composto da due senatori per ogni Stato, eletti – con mandato di sei anni – dal legislativo statuale ed ogni senator disporrà di un solo voto.
ARTICOLO II
Sezione I. 1. Il potere esecutivo sarà conferito ad un Presidente degli Stati Uniti d’America. Egli rimarrà in carica per un periodo di quattro anni e la sua elezione – insieme a quella del Vicepresidente prescelto per lo stesso periodo – avrà luogo secondo le modalità seguenti:
2. Ogni Stato nominerà, nel modo che verrà stabilito dal suo organo legislativo, un numero di Elettori, pari al numero complessivo dei senatori e dei rappresentanti che lo Stato ha diritto di mandare al Congresso; ma né senatori, né rappresentanti, né altri che abbiano incarichi fiduciari o retribuiti alle dipendenze degli Stati Uniti, potranno essere nominati Elettori.

ARTICOLO III
Sezione I. Il potere giudiziario degli Stati Uniti sarà conferito ad una Corte Suprema ed a quelle corti di grado inferiore che il Congresso potrà di quando in quando istituire ed organizzare. I giudici sia della Corte Suprema che delle corti di grado inferiore conserveranno la loro carica finché terranno buona condotta, e, ad epoche fisse, riceveranno per i loro servigi un’indennità, che non potrà essere ridotta finché essi rimarranno in carica” .

I.3. La Francia dalla “Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino” (26 agosto 1789) alla Costituzione dell’anno III° (1795).
Di ben maggiore importanza per la storia europea – e quindi anche italiana – furono la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen e le Costituzioni nate dalla Rivoluzione francese. La prima (la Dichiarazione dei diritti più famosa di ogni altra), votata dalla Assemblea costituente a Versailles il 26 agosto 1789, già condensava, nel suo primo articolo, gli immortali principi dell’Ottantanove: «Gli uomini nascono e vivono liberi ed eguali nei diritti ». Essa non solo riecheggiava gli analoghi testi della rivoluzione americana e raccoglieva gli insegnamenti e le aspirazioni più audaci del pensiero politico europeo, oltre agli autori sopra citati, gli Enciclopedisti e Rousseau, ma era anche il segno del combattivo ripudio di una data situazione storica. (Mirabeau l’aveva scultoreamente definita un «atto di guerra ai tiranni » ) .
Le sue affermazioni in apparenza erano astratte: la sovranità appartiene alla nazione; non si deve obbedienza che alla legge; nessuno può essere arrestato O detenuto se non legalmente; l’accusato è da considerarsi innocente fino a che non sia definitivamente dichiarato colpevole; i cittadini sono eguali davanti alla legge; e così via. Nella realtà, esse erano l’espressione di una pugnace volontà rivoluzionaria, e significavano che la Francia non era più la proprietà del re, che la volontà arbitraria del monarca e dei suoi ministri e agenti non poteva più imporsi a suo libito, che non ci sarebbero più state lettres de cachet per « imbastigliare » i sudditi – ossia per rinchiuderli senza giudizio, magari per anni, nella Bastiglia o in altre fortezze – che la tortura era abolita, che i privilegi erano ingiustificati, e così via. E non si trattava soltanto di una condanna e insurrezione contro tutto un passato, ma di una promessa d’avvenire, di impliciti sviluppi allora in parte impensati e impensabili, nel senso a noi familiare, di una democrazia politica e perfino sociale, di germi reconditi che la storia futura avrebbe maturato. Rispetto alla Dichiarazione dei diritti, la prima Costituzione rivoluzionaria della Francia, quella del 1791 con la sua distinzione fra cittadini « attivi» e « passivi », rinnegante il principio del suffragio universale), ci appare come un ripiegamento, un compromesso fra tendenze contrastanti. Del re co, tale era anche apparsa la Costituzione americana del 1787 definita da Franklin un «fascio di compromessi») se paragonata alla jeffersoniana Dichiarazione d’indipendenza; e lo stesso si sarebbe potuto dire, più tardi, di molte altre Costituzioni, anch’esse, per forza di co e, frutto di cauti equilibri e mutue concessioni. Ben più avanzata sul terreno politico e sociale fu la Costituzione del 1793, votata dalla Convenzione quando la spinta rivoluzionaria era al suo apice. La sua entrata in vigore, prima rinviata per le necessità della guerra e della lotta ad oltranza condotta dal Comitato di salute pubblica fu poi definitivamente impedita dalla caduta di Robespierre; ma la sua fama sarebbe stata rinverdita nel corso delle lotte politiche e sociali della Francia dell’Ottocento. Ben più moderata fu la Costituzione del 1795, denotante la preoccupazione di arginare gli ecce i del ’93 e di consolidare la vittoria della borghesia e le conquiste civili della Rivoluzione. a spese e dell’aristocrazia e insieme delle classi popolari. dei sanculotti e dei giacobini repressi dalla reazione termidoriana. Tale Costituzione fu di lì a poco adottata dalle repubbliche sorte in Italia alla fine del Settecento, dopo le prime vittorie del Bonaparte. Sebbene lontana dalle audacie rivoluzionarie del 1793, essa ebbe, rispetto agli antichi regimi della penisola, una forza dirompente.
Le Costituzioni dell’età napoleonica, dal Consolato all’Impero, seguirono un graduale abbandono delle libertà e dei diritti dell’uomo e del cittadino proclamati dalla grande Rivoluzione francese, e l’approdo ad un nuovo dispotismo, sia pure su basi giuridiche, economiche, sociali profondamente mutate rispetto all’antico regime: un mutamento orami irrevocabile. Abbattuto il dominio napoleonico e tornati in Francia i Borboni, non si poté negare ai francesi, nell’interesse stesso della monarchia restaurata, qualche blanda concessione, ad onta della rabbiosa intransigenza dei reazionari, gli ultras. Si ebbe così la Charte di Luigi XVIII (1814). Il nome stesso (Carta e non Costituzione) indicava trattarsi di una limitata concessione fatta dal monarca ai suoi sudditi. Come allora si volle dire e ribadire, era una Costituzione octroyée, ossia «elargita» benignamente dal sovrano, anziché deliberata da un’assemblea costituente come quelle della Rivoluzione francese. Questo timido moderatismo della Charte non era soltanto nel suo nome e nella sua origine esclusivamente regale, ma altresì nel suo contenuto. In essa infatti il re si era proposto ed era’ riuscito ad assicurarsi una funzione preponderante: non solo vi si sanciva che a lui faceva capo il potere esecutivo, ma a quest’ultimo era riservato l’esclusivo diritto dell’iniziativa legislativa, con esclusione del Parlamento; e si .attribuiva al sovrano il potere di emettere « i regolamenti e le ordinanze per l’esecuzione delle leggi e la sicurezza dello Stato ». (Di qui, nel 1830, le famose ordinanze di Carlo X, che avrebbero provocato la rivoluzione di Luglio). Si reintroduceva inoltre un sistema bicamerale: una Camera dei Pari, in parte ereditaria, destinata a essere il baluardo delle forze aristocratiche e conservatrici, e una Camera dei Rappresentanti, eletta a suffragio assai ristretto. Parco e misurato, in confronto ai testi rivoluzionari, era poi l’elenco dei diritti di libertà, per giunta rigorosamente limitati dai poteri che, come si è detto, erano riservati al monarca. Ma facendo leva su queste pur blande libertà costituzionali (“la liberté selon la Charte”) l’opposizione liberale francese sotto la Restaurazione sostenne una lunga e spesso dura battaglia, che risvegliò l’opinione pubblica più avanzata in quel paese e in tutta l’Europa, e alla fine concorse anch’essa alla rivoluzione del 1830, che portò all’ascesa al trono di Luigi Filippo d’Orléans. La nuova carta costituzionale, modificata qua e là in senso più liberale, ma pur sempre ristretta entro i limitati interessi oligarchici della borghesia del juste-milieu, fu in sostanza un compromesso fra la dinastia orleanista e la nazione. Il frutto più notevole e duraturo di questa ripresa liberale in Europa fu la Costituzione che si diede nel 1831 il Belgio, staccatosi dall’Olanda con una rivoluzione vittoriosa.
In Italia la Restaurazione aveva visto il ritorno dei governi assoluti, senza neppur l’ombra di una Costituzione qualsiasi, fosse pur moderata come quella di Luigi XVIII. La rivoluzione napoletana del 1820 e quella piemontese del 1821 portarono all’adozione, nei due paesi, di una Costituzione, modellata con poche varianti su quella di Cadice del 1812, a sua volta ispiratasi a quella francese del 1791, e rimessa in auge dalla rivoluzione spagnola del 1820. Ma l’una e l’altra Costituzione, nel Napoletano e nel Piemonte, ebbero vita breve, per l’intervento delle truppe austriache che soffocarono i moti rivoluzionari nei due Stati della penisola. Tra il 1821 ed il 1830 le aspirazioni costituzionali in Italia, alimentate dagli scritti e discorsi dell’opposizione liberale francese, si diffusero in ceti soprattutto borghesi, e, all’indomani della rivoluzione di luglio, vennero alla luce durante i moti del 1831 nell’Italia centrale. A Bologna fu perfino votata una Costituzione delle 7 “Province Insorte ed Unite Italiane”: uno Statuto provvisorio del nuovo Stato, di contenuto piuttosto meschino, che non ebbe neppure il tempo di prendere vita, soffocato sul nascere dall’intervento austriaco.
Per quanto concerne questo paragrafo, non saranno citati i singoli articoli della Dichiarazione del 1789 e delle tre Costituzioni della Rivoluzione francese, ma si prediligerà una più proficua comparazione intertestuale, limitando le citazioni agli articoli di volta in volta oggetto del confronto.
La “Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino” , approvata dall’Assemblea Nazionale Costituente, è un vero e proprio “manifesto delle libertà”, ispirato alle idee illuministiche di libertà, fraternità ed uguaglianza giuridica, cioè dei diritti, anche se non sociale. Afferma che tutti gli uomini nascono liberi e sono dotati di diritti, che sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione; sostiene che la sovranità risiede nella nazione, cioè nel popolo francese, e non individui singoli e che la libertà consiste nel fare tutto ciò che non nuoce agli altri. Si afferma anche che la legge è espressione della Volontà Generale ed ha il compito di regolamentare i diritti e vietare le azioni nocive. Tutti i cittadini sono inoltre uguali davanti alla legge e nessuno può subire arresti e processi al di fuori delle regole e delle norme prescritte; tutti godono della libertà di parola e di opinione, anche religiosa. Una forza pubblica deve garantire l’ordine ed il rispetto delle leggi e gli amministratori pubblici devono rendere conto del loro agire alla società; non ha costituzione una società che non garantisca i diritti e che non separi i poteri. Infine si sostiene che la proprietà privata è un diritto inviolabile: da questo si evince come tale Dichiarazione sia lontana dal socialismo.
Intanto i lavori dell’Assemblea procedevano a ritmo incessante: una nuova Costituzione fu approvata il 3 settembre 1791 ed aveva come premessa la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen. I costituenti accoglievano il principio della separazione dei poteri secondo le idee di Montesquieu e trasformavano la Francia in una monarchia costituzionale. Si trattava di una Costituzione di orientamento liberale-moderato, espressione degli interessi della borghesia agiata e della nobiltà illuminata: il diritto di voto era concesso in base al censo e la categoria di “uguaglianza” proclamata dalla Dichiarazione del 1789 veniva applicata ai soli diritti civili. Il sovrano giurava fedeltà alla nazione, riconoscendosi re per volontà popolare, non più per diritto divino, anche se il trono rimaneva ereditario. Il potere esecutivo spettava al sovrano ed ai ministri da lui nominati, il potere legislativo veniva affidato al Parlamento monocamerale (Assemblea), che rimaneva in carica per due anni. Il re, capo del governo, ed i suoi ministri dovevano rendere conto del loro operato all’Assemblea, anche se il sovrano poteva esercitare un diritto di veto sospensivo sulle leggi parlamentari. Il sistema elettorale era articolato in due fasi: prima veniva nominato un certo numero di elettori, che poi nominavano i rappresentanti in Assemblea. Il diritto di scegliere gli elettori era concesso soltanto a chi era in grado di pagare un’imposta pari a 3 giornate lavorative; era elettore chi poteva pagare un’imposta pari a 10 giornate lavorative. Circa 4 milioni risultavano i detentori del diritto di voto e 50.000 gli elettori. Per quanto la soluzione moderata avesse escluso il suffragio universale, va detto che il suffragio previsto dal sistema francese risultava fin da allora più ampio di quello in vigore in Inghilterra.
Nel febbraio del 1790 la Francia era stata divisa in 83 dipartimenti, a loro volta ripartiti in distretti, cantoni e comuni, dove gli intendenti regi furono sostituiti da sindaci e consigli eletti dai cittadini.
La degenerazione del clima rivoluzionario durante la repubblica, entrata in vigore il 22 settembre 1792, portò, il 24 giugno 1793, all’approvazione della Costituzione dell’anno I° (così chiamata per effetto del nuovo calendario rivoluzionario): si trattava di un documento di ispirazione democratica, frutto estremo dell’Illuminismo e del giacobinismo più maturo, di matrice rousseauiana , a differenza di quello del 1791, di orientamento liberale.
In occasione della chiamata alle urne per l’approvazione della Costituzione, si assistette ancora una volta ad un forte astensionismo (votò un francese su quattro). Il voto, tuttavia, risultò ininfluente, poiché il nuovo ordinamento previsto dalla Costituzione del 1793 resto di fatto inattuato e la Costituzione non entrò mai in vigore, a causa della situazione di emergenza.
Nella Costituzione giacobina del 1793, l’uguaglianza è al primo posto, mentre non compare tra i diritti naturali nella Costituzione del 1791, ove è identificata con la fruizione dei diritti civili. Nel testo del 1793 l’uguaglianza precede la libertà, di cui è condizione e la proprietà è relegata all’ultimo posto, preceduta dal diritto alla sicurezza, dal cui mantenimento sembra dipenderne il godimento, in quanto la proprietà privata non può essere d’ostacolo alla sicurezza.
Nella Costituzione del 1793 la Francia è una repubblica, la Convenzione è la nuova denominazione, con significato più rivoluzionario, dell’Assemblea legislativa, e viene eletta a suffragio universale, anche se sempre maschile. Essa nomina un esecutivo di 24 membri scelti da un elenco di nomi proposti dai dipartimenti. Nella Costituzione del 1791, invece, la Francia era stata dichiarata una monarchia costituzionale ed il re deteneva, insieme ai suoi ministri, il potere esecutivo e rispondeva del suo operato all’Assemblea legislativa, espressione della nazione ed eletta a suffragio censitario limitato, sempre maschile, ovviamente.
L’articolo 25 del testo del 1793 recita che “La sovranità risiede nel popolo” e nell0articolo 4 si osserva che “la legge è espressione della volontà generale”. I concetti di sovranità popolare e di volontà generale derivano da Rousseau e presuppongono una scelta radicalmente democratica: tutto il popolo è sovrano e gode dei diritti politici. La Costituzione prevede infatti il suffragio universale (maschile). Nela costituzione del 1791 la sovranità appartiene alla nazione, che la delega ai suoi rappresentanti. Il concetto di nazione (vale a dire il complesso di individui legati dalla stessa lingua, storia e tradizioni culturali) non coincide con quello di popolo, ma presuppone l’assenso ad un certo ordinamento.
Nel 1° articolo del testo del 1793 si afferma che “Lo scopo della società è la felicità comune”. Questo significa che il bene comune precede quello individuale e che, in un certo senso, lo condiziona. Se la volontà generale esprime la legge, il singolo che eventualmente vi si oppone è da considerarsi nemico del bene comune; la Costituzione del 1793 prevede una profonda attenzione ai problemi sociali e lo Stato si fa carico dei meno abbienti. Si legge infatti che “I soccorsi pubblici sono un debito sacro”, nell’articolo 21. Viene promosso il servizio dell’istruzione pubblica al fine di garantire pari opportunità a tutti i cittadini.
Invece nell’articolo 4 della Dichiarazione del 1789, ripreso dalla Costituzione monarchico- costituzionale del 1791, si legge che “La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri”. Si tratta di una definizione “liberale” di libertà, intesa come diritto del singolo all’esercizio autonomo delle proprie facoltà ed abilità, che s’interrompe soltanto nella misura in cui diventa ostacolo per gli altri. Lo Stato agisce dunque come difensore dei diritti dei singoli e l’uguaglianza viene considerata solo sul piano giuridico-civile, in quanto tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge.
In seguito alla reazione termidoriana del luglio 1794 (anno II° della Repubblica), il club dei giacobini venne sciolto e si riallacciarono proficue relazioni con clero ed aristocrazia; al clero venne concessa libertà di culto, a patto che giurasse fedeltà al popolo ed alla Repubblica francese.
Il 22 agosto 1795 fu approvata la nuova Costituzione dell’anno III° , che proponeva un ritorno al moderatismo liberale; il suffragio veniva limitato in base al censo e si metteva in discussione il principio dell’assemblearismo diretto, in base al quale si attribuivano alle assemblee democraticamente elette i poteri decisionali, in favore della restaurazione di una rigida separazione dei poteri. Il potere legislativo veniva esercitato da due Camere, annualmente rinnovabili per un terzo dei loro membri. Il “Consiglio dei Cinquecento”, che proponeva i disegni di legge, ed il “Consiglio degli Anziani”, che le approvava. A differenza di quanto prevedeva la Costituzione americana, qui il bicameralismo non nasceva da un impianto federale dello Stato, ma dalla preoccupazione di evitare lo strapotere di un solo organismo assembleare addetto alla legislazione. Il principale difetto del nuovo ordinamento consisteva nella difficile comunicazione tra i poteri: la legislazione ordinaria si sviluppava con grande lentezza, per cui il buon funzionamento del sistema richiedeva spesso la decretazione speciale. Le elezioni del Parlamento avvenivano a suffragio ristretto su base censitaria e mediante il sistema del doppio turno. I cittadini maschi, proprietari e che avessero compiuto i 21 anni (circa 6 milioni) votavano per eleggere i Grandi elettori, cittadini benestanti di almeno 25 anni (30.000 circa), i quali a loro volta eleggevano i membri delle due Camere. Circa 20 milioni di cittadini rimanevano totalmente esclusi dal sistema elettorale. Il potere esecutivo era esercitato da un direttorio eletto dalle Camere; essa era composto da 5 membri, uno dei quali cambiava ogni anno. Il Direttorio si poneva al vertice di un sistema amministrativo fortemente centralizzato, nominando un commissario governativo per ogni dipartimento. Come le precedenti costituzioni, anche quella dell’anno III° era preceduta da una Dichiarazione dei diritti, cui veniva questa volta affiancata anche una Dichiarazione dei doveri, come a significare che la cittadinanza presupponeva anche obblighi e obbedienza.
Le nuove Camere furono convocate alla fine dell’ottobre 1795. Esse erano, per 511 membri, composte da deputati della Convenzione, secondo un decreto che assicurava la continuità tra i due organismi legislativi; tra i membri eletti circa un centinaio erano di orientamento monarchico e tra gli altri prevaleva la componente moderata ed antigiacobina. Si iniziò a perseguitare i giacobini con il medesimo fanatismo con il quale questi avevano mandato alla ghigliottina i nobili e non mancarono così anche le vendette, di Stato e private.

CAPITOLO II°: IL PERCORSO COSTITUZIONALE NEL RISORGIMENTO EUROPEO.

II.1. Le prime Costituzioni dell’Ottocento in Italia ed in Europa.
Riportiamo di seguito i principali articoli di alcune dichiarazioni e Costituzioni del primo Risorgimento, ed esattamente della “Costituzione spagnola di Cadice” (1812), della Costituzione francese concessa da Luigi XVIII di Borbone nel 1814, della “Dichiarazione d’indipendenza greca” (15 gennaio 1822), del “Manifesto dei Decabristi” (dicembre 1825), della Costituzione francese del 1830, della Costituzione belga del 1831, della Costituzione francese del 1848, della Costituzione della Repubblica romana (3 luglio 1849), quest’ultima, come la Costituzione francese dell’anno I°, mai entrata in vigore, ovviamente per differenti motivi che vedremo al momento opportuno. Ad ogni documento riportato segue la rispettiva analisi testuale.
A) Costituzione spagnola di Cadice (1812).
Art.2. La Nazione Spagnuola è libera ed indipendente; e non è e non può esser patrimonio di veruna famiglia né persona.
Art.3 La sovranità risiede essenzialmente nella Nazione.
Art.12. La Religione della Nazione Spagnola è presentemente, e perpetuamente sarà, la Cattolica, Apostolica, Romana, unica vera.
Art 172. Le restrizioni dell’autorità del Re sono le seguenti:
1.Non può il Re impedire sotto verun pretesto le riunioni delle Corti.
2.Non può il Re uscire dal Regno senza il consenso delle Corti.
5.Non può similmente senza il consenso delle Corti obbligarsi a dar sussidi a veruna Potenza straniera.
8.Non può il Re né direttamente né indirettamente imporre contribuzioni, né chieder doni o pagamenti per verun oggetto né titolo: il decretare tali cose è proprio delle Corti.
12.Il Re, prima di contrarre matrimonio, ne darà parte alle Corti per ottenerne il consenso; e nel caso che sposi senza consenso, s’intenderà che abbia rinunziato la Corona.
13. Il Re, nella sua esaltazione al trono, o nell’assumere, dopo la minore età, il governo del Regno, presterà giuramento innanzi alle Corti sotto la formula seguente: […] osserverò e farò osservare la Costituzione politica e […] rispetterò sopra ogni altra cosa la libertà politica della nazione, e la personale di ogni individuo.
In questo testo, come si può facilmente evincere dagli articoli riportati, si affermano la libertà e la sovranità popolare tramite le “Coortes”, ovvero il Parlamento e si impongono i limiti della monarchia (il re non può nemmeno sposarsi senza il consenso del Parlamento) ; tuttavia si ribadisce che la religione cattolica è l’unica religione di Stato. In questo senso la Costituzione di Cadice, per due volte concessa (1812 e 1820) e per due volte revocata (1815 e 1820), risultò molto gradita agli spagnoli, in quanto fondeva le aspirazioni democratiche alla libertà con il cattolicesimo, molto sentito dal popolo spagnolo. La Costituzione divenne un modello da imitare per tutte le rivoluzioni risorgimentali all’inizio del XIX° secolo .
B) Costituzione francese del 1814.
Art. 8. I francesi hanno il diritto di pubblicare e di fare stampare le loro opinioni, conformandosi alle leggi che debbono reprimere gli abusi di tali libertà.
Art. 13. La persona del re è inviolabile e sacra. I suoi ministri sono responsabili. Il potere esecutivo appartiene unicamente al sovrano.
Art. 14. Il re è capo supremo dello Stato, comanda le forze di terra e di mare, dichiara la guerra, fa i trattati di pace, d’alleanza e di commercio, nomina tutti gli impiegati della pubblica amministrazione e fa i regolamenti e le ordinanza necessarie per l’esecuzione delle leggi […].
Art. 15. La potenza legislativa si esercita collettivamente da parte del re, della Camera dei pari e della Camera dei deputati, il re propone la legge.
Art. 22. Il re sanziona e promulga le leggi.
Art. 24. Il potere legislativo è esercito collettivamente dal re, dalla Camera dei Pari e dalla Camera dei deputati.
Art. 27. La nomina dei pari appartiene al re.
Art. 46. Nessun emendamento ad una legge può essere presentato, se non è stato proposto o consentito dal re.
Art. 57. Ogni giustizia emana dal re. Essa viene amministrata in suo nome da giudici che egli nomina e che egli istituisce.
Art. 58. I giudici nominati dal re sono inamovibili.
Art. 67. Il re a il diritto di fare grazia, e quello di commutare le pene.
Art. 71. La nobiltà antica riprende i suoi titoli. […].
Art. 74. Il re ed i suoi successori giureranno, nella solennità del loro sacro, di osservare fedelmente la presente Carta costituzionale .
Con Luigi XVIII di Borbone, fratello del ghigliottinato Luigi XVI, nel 1814 i Borboni tornano sul trono di Francia. In Francia il clima della Restaurazione, portato dal Congresso di Vienna (1814-15), ebbe inizialmente un carattere abbastanza morbido. Luigi XVIII concesse infatti una Costituzione, sopra riportata, nel 1814, che prevedeva un Parlamento bicamerale con la Camera dei Pari (si intendono i “Pari al re”, come sarà nello “Statuto albertino”), di nomina regia, ed la Camera dei Deputati, eletta su base censitaria maschile e con poteri limitati. Si concedeva una certa libertà di stampa e si salvarono alcune importanti innovazioni, come il codice civile napoleonico e l’ordinamento scolastico statale. Fu, la Carta, il classico modello di una Costituzione “octroyée”, cioè concessa dall’alto. La sua politica conobbe tuttavia una svolta repressiva dopo l’assassinio, da parte di un gruppo di rivoluzionari filo-giacobini, del nipote duca di Berry e ministro del re. Il sovrano scatenò allora una violenta ondata repressiva, appoggiata dagli “ultra-realisti”, ovvero coloro che erano “più realisti del re”. Analoga politica fu seguita, negli stessi anni, in Russia dallo zar Alessandro I Romanov, che aveva inizialmente promosso una politica abbastanza moderata, ma che divenne repressiva dopo l’assassinio, da parte di gruppo di rivoluzionari, del diplomatico tedesco Von Kotzbue.
C) Dichiarazione d’indipendenza greca (15 gennaio 1822).
La nazione greca prende il cielo e la terra a testimoni […]. Spinta dalle misure inique e distruttrici di questi feroci tiranni è […], essa è stata obbligata a ricorrere alle armi per necessità di salvezza […]. Discendendo da una nazione gloriosa per il suo ingegno e la sua mite civiltà, vivendo in un’epoca in cui questa civiltà spande con prolusione vivificatrice i suoi benefici sugli altri popoli di Europa, e avendo sempre sotto gli occhi lo spettacolo di felicità di cui questi popoli godono sotto l’egida protettrice delle leggi, potevano i Greci restare più a lungo in questa condizione terribile e vergognosa, e osservare con indifferenza quella felicità che la natura ha riservato ugualmente a tutti gli uomini?
Nella suddetta Dichiarazione si fa inizialmente appello a Dio per la libertà del popolo greco, in quanto Dio non vuole che un popolo sia schiavo di un altro, si ricordano le origini gloriose della nazione greca, che godeva infatti di una superiorità intellettuale e culturale su tutte le altre popolazioni dell’impero ottomano e si definisce il regime turco come incivile e feroce . La Dichiarazione è del 1822, anche se l’indipendenza della Grecia sarà conquistata solo nel 1829, con il Trattato di Adrianopoli .
D) Manifesto dei Decabristi (dicembre 1825).
1.L’abbattimento del passato governo.
2.L’instaurazione di un governo provvisorio fino alla costituzione di quello regolare, elettivo.
3.La libertà di stampa e perciò l’abolizione della censura.
4.La libertà di culto per tutte le fedi.
5.L’abolizione del diritto di proprietà esteso alle persone.
6.L’uguaglianza di tutti i ceti di fronte alla legge.
7.La proclamazione del diritto di ogni cittadino di darsi l’occupazione che crede: perciò il nobile, il mercante, l’artigiano, il contadino, tutti egualmente hanno il diritto di entrare nel servizio civile e militare e nel clero.
13.L’instaurazione di amministrazioni distrettuali, circondariali, provinciali e regionali.
14.La pubblicità dei tribunali.
Il “Manifesto dei Decabristi”, così chiamato in quanto prese il nome dal mese nel quale si verificò l’insurrezione (dicembre 1825) , afferma la libertà di stampa, fede religiosa e la pubblicità della legge e chiede l’abolizione della servitù della gleba .
E) Costituzione francese del 14 agosto 1830.
Luigi Filippo, re dei Francesi, a tutti i presenti e futuri, salute.
Abbiamo ordinato e ordiniamo che la Carta costituzionale del 1814, così come è stata emendata dalle due Camere il 7 agosto e accettata da noi il 9, sarà di nuovo pubblicata nei termini seguenti:

DIRITTO PUBBLICO DEI FRANCESI
Art. 1 – I Francesi sono eguali davanti alla legge, quali che siano del resto i loro titoli e il loro rango.
Art. 2 – Contribuiscono indistintamente, in proporzione dei loro beni, ai carichi dello Stato.
Art. 3 – Sono tutti egualmente ammissibili agli impieghi civili e militari.
Art. 4 – Parimenti garantita è la loro libertà individuale, non potendo alcuno essere posto sotto accusa né arrestato se non nei casi previsti dalla legge e nella forma da essa prescritta.
Art. 5 – Ognuno professa la propria religione con una libertà eguale ed ottiene per il proprio culto la stessa protezione.
Art. 6 – I ministri della religione cattolica, apostolica e romana, professata dalla maggioranza dei Francesi, e quelli degli altri culti cristiani ricevono degli stipendi dal Tesoro pubblico.
Art. 7 – I Francesi hanno il diritto di pubblicare e di fare stampare le loro opinioni conformandosi alle leggi. – La censura non potrà mai essere ristabilita.
Art. 8 – Tutte le proprietà sono inviolabili, non escluse quelle chiamate nazionali, la legge non ponendo alcuna distinzione tra di esse.
Art. 9 – Lo Stato può esigere il sacrificio di una proprietà, per motivi d’interesse pubblico legalmente constatato, ma previa indennità.
Art. 10 – Ogni ricerca sulle opinioni e sui voti emessi sino alla restaurazione è proibita. Lo stesso oblio è ordinato ai tribunali e ai cittadini.
Art. 11 – La coscrizione è abolita. Il modo di reclutamento dell’esercito di terra e di mare è determinato da una legge.
FORME DEL GOVERNO DEL RE
Art. 12 – La persona del Re è inviolabile e sacra. I suoi ministri sono responsabili. Il potere esecutivo spetta solo al Re.
Art. 13 – Il Re è il capo supremo dello Stato, comanda le forze di terra e di mare, dichiara la guerra, fa i trattati di pace, d’alleanza e di commercio, provvede alle nomine per tutti gli impieghi della amministrazione pubblica e fa i regolamenti e le ordinanze necessarie per l’esecuzione delle leggi, senza poter mai né sospendere le leggi stesse, né dispensare dalla loro esecuzione. – Tuttavia solo in virtù di una legge una truppa straniera potrà essere ammessa al servizio dello Stato.
Art. 14 – Il potere legislativo viene esercitato collettivamente dal Re, dalla Camera dei pari e dalla Camera dei deputati.
Nel 1830 il ramo francese dei Borbone perse definitivamente il proprio trono. Al posto di Carlo X, fratello del ghigliottinato Luigi XVI, si impose Luigi Filippo d’Orleans, un principe d’alto lignaggio disposto a governare nel rispetto di una carta costituzionale.
La Costituzione francese del 1830 fungerà da modello per molti testi costituzionali, tra i quali anche lo Statuto albertino che Carlo Alberto re di Sardegna concederà nel 1848, ed è, sostanzialmente, una copia di quella del 1814. La carta non è “octroyée”, bensì è il frutto di un patto tra la nuova monarchia orleanista e il popolo francese (e lo stesso monarca assume il titolo di “re dei francesi” e non “re di Francia”). Il sistema istituzionale che ne deriva è un sistema rappresentativo e censitario, nel quale vige un sistema di libertà garantite dalla stessa Costituzione (uguaglianza di fronte alla legge, libertà individuale, libertà religiosa e d’opinione, inviolabilità della proprietà) .
F) Costituzione belga (1831).
Art. 10. Nello Stato non vi sono distinzioni di ordini. I Belgi sono uguali davanti alla legge; solo essi possono accedere agli impieghi civili e militari, salvo le eccezioni che la legge può stabilire per casi particolari. E’ garantita l’eguaglianza di donne ed uomini.
Art. 15. Il domicilio è inviolabile; nessuna visita a domicilio non può svolgersi che nei casi e nelle forme previste dalla legge.
Art. 25. La stampa è libera; in nessun caso potrà prevedersi la censura; non può essere richiesto un deposito cauzionale a scrittori, editori o stampatori.
Quando l’autore è noto e domiciliato in Belgio, l’editore, lo stampatore o il distributore non possono essere perseguiti.
Art. 26. I belgi hanno il diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi, nel rispetto delle leggi che possono regolare l’esercizio di questo diritto, senza bisogno di autorizzazione.
Questa disposizione non si applica alle riunioni all’aria aperta, che rimangono regolate dalle leggi di polizia
Art. 30. L’impiego delle lingue in uso in Belgio è facoltativo; può essere regolato solo dalla legge, e solo per gli atti pubblici e per gli affari giudiziari.
Art. 33. Tutti i poteri promanano dalla Nazione.
Essi sono esercitati nelle forme stabilite dalla Costituzione.
Art. 36. Il potere legislativo federale è esercitato collettivamente dal Re, dalla Camera dei Rappresentanti e dal Senato.
Art. 61. I membri della Camera dei rappresentanti sono eletti direttamente dai cittadini che abbiano compiuto i 18 anni e che non si trovino in uno dei casi di esclusione dal voto previsti dalla legge.
Ogni elettore ha diritto ad un solo voto.
Art. 101. I ministri sono responsabili innanzi alla Camera dei rappresentanti.
I ministri non potranno essere perseguiti o indagati per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni.
Art. 146. Nessun tribunale e nessun organo giudiziario contenzioso può essere istituito se non in virtù di una legge. Non possono essere creati Commissioni o tribunali straordinari, quale che sia la loro denominazione.
Art. 159. Le corti e i tribunali non daranno applicazione ai decreti ed ai regolamenti di carattere generale, provinciale o locale che non siano conformi alle leggi .
La Costituzione belga è l’unica carta costituzionale del Belgio ed è rimasta pressoché immutata fino agli anni ’60 del Novecento; gli emendamenti successivi hanno riguardato l’allargamento della base elettorale, con l’introduzione del suffragio universale. Da notare che l’articolo 26 sarà quasi letteralmente ripreso dall’articolo 32 dello Statuto albertino. La Carta occupa una posizione importantissima tra le carte costituzionali del primo Ottocento in quanto servirà da modello ispiratore per la Costituzione della Repubblica italiana. Fu emanata appena il Belgio conquistò, durante i moti degli anni ’30, l’indipendenza dall’Olanda degli Orange; si consideri anche che il Belgio fu l’unico Paese nel quale l’insurrezione, durante i moti di questi anni, ebbe successo, portando all’indipendenza politica .

G) Costituzione francese del 4 novembre 1848.
Nel nome del popolo francese l’Assemblea nazionale ha adottato, e, conformemente all’articolo 6 del decreto del 28 ottobre 1848, il Presidente dell’Assemblea nazionale promulga la seguente Costituzione così redatta:
PREAMBOLO
In presenza di Dio e nel nome del popolo francese, l’Assemblea nazionale proclama:
I – La Francia s’è costituita in Repubblica. Con l’adottare questa forma definitiva di Governo, essa si è proposta come scopo di camminare più liberamente nella via del progresso e della civiltà, di assicurare una ripartizione sempre più equa degli oneri e dei vantaggi della società, di aumentare l’agiatezza di ognuno con la graduale riduzione delle spese pubbliche e delle imposte, e di far arrivare tutti i cittadini, senza nuove scosse, con l’ulteriore e costante azione delle istituzioni e delle leggi, a un grado sempre più elevato di moralità, di lumi e di benessere.
II – La Repubblica francese è democratica, una e indivisibile.
III – Essa riconosce dei diritti e dei doveri anteriori e superiori alle leggi positive.
IV – Ha come principî la Libertà, l’Eguaglianza e la Fraternità. Ha come basi la Famiglia, il Lavoro, la Proprietà, l’Ordine pubblico.
V – Essa rispetta le nazionalità straniere così come intende far rispettare la propria, non intraprende nessuna guerra a fini di conquista e giammai impiega le sue forze contro la libertà di alcun popolo.
VI – Doveri reciproci obbligano i cittadini verso la Repubblica, e la Repubblica verso i cittadini.
VII – I cittadini devono amare la Patria, servire la Repubblica, difenderla a costo della loro vita, partecipare ai pesi dello Stato in proporzione della loro fortuna; devono assicurarsi col lavoro dei mezzi di esistenza, e, con la previdenza, delle risorse per l’avvenire; devono concorrere al benessere comune aiutandosi fraternamente gli uni con gli altri, e all’ordine generale osservando le leggi morali e le leggi scritte che reggono la società, la famiglia e l’individuo.
VIII – La Repubblica deve proteggere il cittadino nella persona, la famiglia, la religione, la proprietà, il lavoro e mettere alla portata di ognuno l’istruzione indispensabile a tutti gli uomini; deve, con un’assistenza fraterna, assicurare l’esistenza dei cittadini bisognosi sia procurando loro del lavoro nei limiti delle sue possibilità, sia dando, in mancanza della famiglia, dei sussidi a coloro che non sono in condizioni di lavorare. In vista del compimento di tutti questi doveri, e per la garanzia di tutti questi diritti, l’Assemblea nazionale, fedele alle tradizioni delle grandi assemblee che hanno inaugurato la Rivoluzione francese, decreta nel modo che segue, la Costituzione della Repubblica.
COSTITUZIONE – CAPITOLO I° – DELLA SOVRANITÀ
Art. 1 – La sovranità risiede nell’universalità dei cittadini francesi. – È inalienabile e imprescrittibile. – Nessun individuo, nessuna frazione del popolo può attribuirsene l’esercizio.
CAPITOLO II° – DIRITTI DEI CITTADINI GARANTITI DALLA COSTITUZIONE
Art. 2 – Nessuno può essere arrestato o detenuto se non secondo le prescrizioni della legge.
Art. 3 – La dimora di ogni persona abitante il territorio francese è inviolabile; è permesso di penetrarvi solo secondo le forme e nei casi previsti dalla legge.
Art. 4 – Nessuno sarà distratto dai suoi giudici naturali. – Non potranno essere create commissioni e tribunali straordinari a qualunque titolo e sotto qualunque denominazione.
Art. 5 – La pena di morte è abolita in materia politica.
Art. 6 – La schiavitù non può esistere su nessuna terra francese.
Art. 7 – Ognuno professa liberamente la sua religione, e riceve dallo Stato, per l’esercizio del suo culto, un’eguale protezione. – I ministri, sia dei culti attualmente riconosciuti dalla legge, sia di quelli che venissero riconosciuti in avvenire, hanno il diritto di ricevere uno stipendio dallo Stato.
Art. 8 – I cittadini hanno il diritto di associarsi, di riunirsi pacificamente e senza armi, di rivolgere petizioni, di manifestare i loro pensieri per via della stampa o diversamente. – L’esercizio di questi diritti trova i suoi unici limiti nei diritti o nella libertà degli altri e nella sicurezza pubblica. – La stampa non può, in nessun caso, essere sottoposta alla censura.
Art. 9 – L’insegnamento è libero. – La libertà d’insegnamento si esercita secondo le condizioni di capacità e di moralità determinate dalle leggi, e sotto la sorveglianza dello Stato. – Questa sorveglianza si estende a tutti gl’istituti di educazione e d’insegnamento, senza nessuna eccezione.
Art. 10 – Tutti i cittadini sono egualmente ammissibili a tutti gli impieghi pubblici, senza altro motivo di preferenza che il loro merito, e secondo le condizioni che saranno fissate dalle leggi. – Sono aboliti per sempre ogni titolo nobiliare, ogni distinzione di nascita, di classe o di casta.
Art. 11 – Tutte le proprietà sono inviolabili. Tuttavia lo Stato può esigere il sacrificio di una proprietà per causa di utilità pubblica legalmente constatata, e mediante una giusta e preventiva indennità.
Art. 12 – La confisca dei beni non potrà essere mai ristabilita.
Indubbiamente i principi della prima rivoluzione ispirano profondamente gli autori della Costituzione del 1848. Essa afferma la sovranità nazionale; proclama la libertà, l’uguaglianza, la fraternità; organizza la democrazia. Ma la sua filosofia politica è molto meno individualista di quella del 1789: “riconosce diritti e doveri anteriore e superiore alle leggi positive”; assume come fine della Repubblica “assicurare una divisione sempre piú equa degli oneri e dei vantaggi della società”; enumera tra i diritti dell’uomo il diritto al lavoro e all’assistenza; infine, dà questa giusta definizione dei rapporti sociali: “”Doveri reciproci obbligano i cittadini verso la Repubblica e la Repubblica verso i cittadini”. Nella Costituzione del 1848 si trova un’ispirazione solidaristica e cristiana (il suo preambolo invoca direttamente “Dio”; le costituzioni rivoluzionarie dicevano pudicamente “l’Essere supremo” e la Carta del 1814 “la Divina Provvidenza”).
In pratica, la Costituzione ritornava all’Assemblea unica e alla assoluta separazione dei poteri, secondo la tradizione della Grande Rivoluzione .
H) Costituzione della Repubblica romana (3 luglio1849).
Princìpi fondamentali.
I.La sovranità è per diritto eterno nel popolo. Il popolo dello Stato romano è costituito in repubblica democratica.
II.Il regime democratico ha per regola l’eguaglianza, la libertà, la fraternità. Non riconosce titoli di nobiltà, né privilegi di nascita o casta.
III.La Repubblica colle leggi e colle istituzioni promuove il miglioramento delle condizioni morali e materiali di tutti i cittadini.
IV.La Repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli: rispetta ogni nazionalità.
VII.Dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici.
Parte I.
Art.5. La pena di morte e di confisca sono proscritte.
Art. 7. La manifestazione del pensiero è libera: la legge punisce l’abuso senza alcuna misura preventiva.
Art. 8. L’insegnamento è libero.
Art. 16. L’assemblea è costituita da’ rappresentanti del popolo.
Art. 20. I comizi generali si raduno ogni 3 anni, nel 21 aprile. Il popolo vi elegge i suoi rappresentanti con voto universale, diretto e pubblico.
Questa Costituzione, risulta molto avanzata, la più avanzata, forse, di tutte quelle risorgimentali, tanto più se si pensa che è stata prodotta nello Stato della Chiesa: si sostiene il motto della Rivoluzione francese, richiamando i principi di libertà, fraternità ed uguaglianza, si afferma la libertà di espressione e di insegnamento, la democrazia, l’abolizione dei privilegi e soprattutto l’abolizione dell’idea di “Stato confessionale”. Emanata il 3 luglio 1849, purtroppo non entrò mai in vigore perché al momento della sua promulgazione, il papa Pio IX, andato in esilio a Gaeta, fu riportato a Roma e reinsediato sul trono pontificio dal presidente della Repubblica francese Luigi Napoleone Bonaparte . Si fa presente che questa Costituzione è cronologicamente successiva allo Statuto albertino, che tratteremo in seguito, ma si è preferito trattarla adesso per lasciare uno spazio apposito a quella che sarà la carta costituzionale italiana per un intero secolo .

II.2. Il dibattito storiografico sul Risorgimento italiano.
A) Premessa.
Innanzitutto alcune precisazioni terminologiche: il vocabolo “Risorgimento” deriva dal linguaggio religioso e significa “Resurrezione”, ovviamente in senso politico, così come la parola “Irredentismo”, riferito alle terre in mano austriaca prima della Grande Guerra, vuol dire “non ancora irredente, non ancora salvate”, sempre in chiave politica, ma con origini religiose. Invece il vocabolo “patria” vuole esprimere “la terra dei padri”, così come la categoria “nazione” intende il luogo di nascita.
E’ infine doveroso precisare che questa è la parte centrale del mio lavoro, sicuramente la più importante ed interessante, dal quale la tesi prende il titolo.
Detto questo, è bene tener presente che le ondate rivoluzionarie dei moti degli anni ’20 e ’30 dell’Ottocento, erano risultate complessivamente fallimentari, ma nonostante ciò si stava sviluppando l’idea di nazione, l’idea di una patria unita e di un popolo oppresso che doveva liberarsi dall’invasore straniero.
Quanto detto trova riscontro anche nella letteratura italiana coeva, con Alessandro Manzoni, autore di tragedie come Il conte di Carmagnola e l’Adelchi, e di un’ode civile quale “Marzo 1821”, oltre che de I Promessi Sposi, in cui l’autore utilizza l’espediente del romanzo storico, parlandoci della dominazione spagnola del Seicento per alludere al malgoverno austriaco dell’Ottocento nel Lombardo-Veneto. Giuseppe Verdi, nel celebre “Nabucco”, affronta, in ambito musicale, il tema della patria; sono questi gli anni in cui si scrive, clandestinamente, sui muri delle cettà e dei paesi d’Italia, “W Verdi”, alludendo a “W Vittorio Emanuele Re Di Italia”!
B) Giuseppe Mazzini.
In questo contesto si colloca il pensiero di Giuseppe Mazzini, figlio di un docente universitario di medicina e di una madre giansenista. Aderì al pensiero liberale e s’iscrisse alla Carboneria; dopo 3 mesi di arresto, andò in Francia; a Genova, nel 1831, fondò la Giovine Italia, criticando la Carboneria e le società segrete per il loro carattere settario, che non coinvolgeva il popolo.
Mazzini vagheggiò l’idea di un’Italia unita, indipendente dallo straniero e repubblicana: solo il popolo unito, e non delle parti di esso, può portare alla libertà. Gli slogan del programma mazziniano sono infatti “Unità e Repubblica”, “Dio e Popolo”, “Pensiero ed Azione”. La lotta di liberazione di un popolo dallo straniero è per Mazzini voluta da Dio; inoltre, l’azione rivoluzionaria dev’essere diretta espressione del pensiero. In questo senso si riprendono concetti sia manzoniani (“Dio e Popolo”, in quanto una guerra di liberazione è voluta da Dio) che hegeliani (“Pensiero ed Azione” come sintesi di idea e realtà).
L’utopia del programma mazziniano consisteva però nel considerare la questione sociale come secondaria e subordinata alla questione politica, alla liberazione ed all’unificazione nazionale, dimenticandosi così della grave questione sociale, forte soprattutto al Sud. Per questo fu acre la polemica tra Mazzini e Marx: il primo considerava la lotta di classe, fatta propria dal fondatore del “socialismo scientifico”, come la lotta degli egoismi di una parte del popolo contro un’altra; la lotta di classe divide quindi il popolo ed è lontana da quel mistico programma di unità nazionale auspicato da Mazzini.
Lo stile degli scritti di Mazzini, come lo stesso Manifesto del partito comunista di Marx, è infiammato di fervore rivoluzionario, ma, a differenza di Marx, anche di misticismo, come emerge in Fede e avvenire, la principale opera del pensatore genovese. La religione mazziniana è infatti la religiosità laica del mito della patria, imbevuta di enfasi retorica e patriottica.
Nel 1834, con gli stessi obiettivi della “Giovine Italia”, Mazzini fonda in Svizzera, a Ginevra, la “Giovine Europa”. Nel 1844 fallì tragicamente la spedizione dei fratelli Emilio ed Attilio Bandiera, due mazziniani che tentarono invano di sollevare i contadini della Calabria contro i Borboni: i contadini non recepirono il messaggio mazziniano ed i fratelli Bandiera furono fucilati; il fallimento di questa impresa segna la crisi irreversibile del pensiero mazziniano e dimostra la mentalità chiusa, retrograda a conservatrice della classe contadina del Sud.
Carlo Pisacane, altro mazziniano, con una disastrosa spedizione a Sapri, cercò inutilmente di sollevare i contadini del mezzogiorno con un’altra spedizione, ma si tolse la vita per non cadere nelle mani del nemico: il suo programma di ridistribuzione delle terre non fu accolto dai contadini, e ciò fa capire il peso che la Chiesa esercitava sui contadini del Sud. Mazzini iniziò a porsi la “crisi del dubbio”, cioè ad interrogarsi sulla legittimità del sacrificio umano che chiedeva ai suoi seguaci.
Dalla Svizzera emigrò in Inghilterra, ove prese contatti con il sindacalismo degli operai, ma rimase convinto delle sue idee; nel 1864 si scontrò con Marx alla I Internazionale a Londra. Ma le idee mazziniane saranno ben presto destinate a declinare sia di fronte all’internazionalismo marxiano, che uscirà trionfante dalla I Internazionale, sia al cospetto del più concreto programma cavouriano di unità nazionale da attuarsi però non mediante la guerriglia, ma soltanto con il gioco politico-diplomatico tra le grandi potenze nel quale il Piemonte, Stato-guida della futura Italia, avrebbe dovuto inserirsi.
In Fede e avvenire, Mazzini auspica entusiasticamente una rivoluzione popolare. Popolo e monarchia, egli afferma, sono irriducibilmente nemici: il popolo è perennemente giovane e sogna un avvenire di libertà, la monarchia è attaccata ai suoi antichi privilegi. Bisogna risvegliare in un popolo assonnato i sentimenti di libertà e vendetta; il popolo, al momento, è rassegnato alla sconfitta perché sfiduciato: nei popoli manca adesso la fede, si legge nel testo mazziniano, non quella individuale, del martirio, ma quella globale, sociale (non nel senso economico, naturalmente, ma riferito all’intera società), che porta alla vittoria. Nel suo “acceso” stile il pensatore parla di una “missione” liberatrice che il popolo deve compiere perché animato da Dio: “Dio e popolo” .
C) La figura di Giuseppe Garibaldi.
Oltre a Mazzini, negli anni ’30 e ’40 il dibattito storiografico sul Risorgimento italiano fu molto vivo: figura vicina a Mazzini fu quella di Giuseppe Garibaldi. Non era un “teorico”, ma un guerrigliero che mise in pratica le idee di Mazzini. Paladino della libertà, accorse ovunque vi era un popolo oppresso che voleva liberarsi. Per questo s’impegnò in Sud America nelle lotte di liberazione dal dominio spagnolo, per questo fu definito “l’eroe dei due mondi”: dal Sud America venne in Italia, ove combatté con i suoi uomini, i garibaldini, le “camicie rosse” nella prima e nella seconda guerra d’indipendenza, con la “spedizione dei mille” (1860).
Anche se repubblicano, non esitò ad offrire la spada s due re, a Carlo Alberto, durante la prima guerra d’indipendenza (1848-49), anche se il sovrano rifiutò l’aiuto del guerrigliero nizzardo, che era anche ricercato dall’esercito piemontese come rivoluzionario fuggiasco, ed a Vittorio Emanuele II durante la seconda guerra.
Nel 1849, resta praticamente solo a combattere i francesi che riportano il papa a Roma; ancora lo troviamo nel 1870, a fianco, questa volta, della Francia, invasa dalla Prussia di Bismarck. Non era un intellettuale, ma nemmeno un ignorante: era un autodidatta, scrisse alcuni romanzi e, ancor giovane, durante il viaggio verso l’America Latina, lesse Il nuovo cristianesimo del socialista utopico Saint-Simon.
Spesso i garibaldini furono oggetto di critica, da parte soprattutto di una certa storiografia marxista: è bene infatti precisare che, se Garibaldi fu un vero eroe, paladino della libertà a tutti i costi, repubblicano dedito alla monarchia, così non furono sempre i suoi seguaci, che si diedero, talvolta, ad opere di violenza e saccheggio nelle terre liberate del Mezzogiorno d’Italia; ma Garibaldi, quando fu necessario, non esitò a fucilarli; di niente fu in debito verso i popoli liberati, pagava addirittura la colazione dei suoi soldati .
D) Cesare Balbo e Le speranze d’Italia.
Ne Le speranze d’Italia, Cesare Balbo cercò utopisticamente di conciliare la liberazione della penisola italiana con la pretesa della centralità asburgica in Europa: l’Austria avrebbe dovuto dirigere la propria attenzione sui Balcani e sull’impero ottomano, ormai indebolito, lasciando così libera l’Italia. Tale utopia non teneva conto dei desideri di libertà che si erano già manifestati con l’indipendenza greca del 1829.
E) Giuseppe Ferrari e La filosofia della rivoluzione.
Giuseppe Ferrari ne La filosofia della rivoluzione si oppose a Mazzini, sostenendo che questione sociale e politica non potevano essere separate. Contrario al moderatismo, auspicava una rivoluzione popolare armata che portasse ad un’unione federale laica di Stati, non posta sotto l’autorità del papa, come voleva invece Vincenzo Gioberti.
F) Vincenzo Gioberti: il federalismo neoguelfo.
Vincenzo Gioberti, in Del primato morale e civile degli italiani (1843), afferma la tesi neoguelfa, che sarà ben accolta, ovviamente, dal papa Pio IX, e rifiuta la prassi rivoluzionaria, sia marxista che mazziniana, considerata pericolosa dalla piccola e media borghesia cattolica italiana alla quale Gioberti si rivolgeva.
La rivoluzione, scrive lo storiografo, porta solo disordine: non vi è pace senza ordine, né bene civile. Due sono le armi del potere sovrano: 1) il diritto, cioè la forza morale, e 2 ) l’esercito, cioè la forza materiale. Esistono due tipi di rivoluzione: 1) una moderata e legittima, tesa a modificare il potere sovrano quando è necessario; 2) una violenta ed illegittima, tesa a distruggere il potere sovrano per lasciare spazio solo all’anarchia, “sommo di tutti i mali”.
La Rivoluzione francese è un esempio di demagogia, che grazie alle “furie della plebe” ha portato ad una nuova tirannide, quella napoleonica.
Le rivoluzioni dell’Ottocento europeo sono “brutte copie” della Rivoluzione francese e per questo sono fallite.
Dopo aver criticato la strada della rivoluzione, Gioberti, nel suo saggio, afferma la tesi neoguelfa: il potere temporale del papa affonda le sue radici da 18 secoli nella storia, è assistito da Dio e rafforzato dalla fede dei popoli e non ha mai violato le sovranità nazionali, anche nei momenti più difficili della storia .
Gioberti auspicò la liberazione degli Stati italiani dallo straniero, ma anche la loro unione in una confederazione posta sotto l’autorità morale del papa.
G) Carlo Cattaneo: il federalismo laico e gli “Stati Uniti d’Europa”.
Il milanese Carlo Cattaneo, animatore delle “5 giornate di Milano” contro l’Austria dal 18 al 22 marzo 1848, fondò “Il Politecnico”, la rivista più moderna di tutto il Risorgimento in quanto dotata di maggior senso critico. Vagheggiò un federalismo laico, e non cattolico, a differenza di Gioberti. L’Europa si sarebbe dovuta organizzare come gli Stati Uniti d’America; fu quindi contrario alle tesi mazziniane sull’unità nazionale, che avrebbero portato ad una “piemontesizzazione” della penisola, che non avrebbe tenuto conto delle differenze regionali, che il radicale federalismo di Cattaneo voleva invece salvare.
Nei suoi scritti afferma che il fallimento dei moti del 1848 risiede nella responsabilità dei Savoia, al cui potere bisogna sostituire un federalismo laico, gli “Stati Uniti d’Europa”, organizzati sul modello degli “Stati Uniti d’America”. Il Piemonte è per Cattaneo responsabile della sconfitta degli Stati italiani; ogni Stato deve essere libero e sovrano di sé stesso. Il nemico austriaco è stato solo capace di farsi odiare dagli italiani assoggettati: sovranità e libertà sono necessarie al popolo. I francesi hanno combattuto per la libertà, egli scrive, ma non l’hanno avuta, a differenza degli americani, che l’hanno saputa conservare.
Anche l’Italia, come l’Europa, va organizzata come uno Stato confederale, sul modello americano: gli Stati italiani devono essere reciprocamente indipendenti, ma pronti all’unità in caso di necessità. L’attuale divisione degli Stati italiani porterà soltanto alla servitù, soltanto un Congresso nazionale potrà frenare le ambizioni dei Savoia: “L’Italia non è serva delli stranieri, ma de’ suoi”, cioè di sé stessa, ed è governata dagli austriaci perché è incapace di governarsi da sola, e “Gli austriaci sono solo gli aguzzini, il braccio armato di monsignori e ciambellani italiani che volevano ridurre l’Italia in catene”. Per questo, prima di essere serva degli stranieri, l’Italia è serva di sé stessa .
Il pensatore milanese conclude il suo testo criticando la politica dei Savoia e del Piemonte, che non pensa agli interessi nazionali, ma soltanto ai propri, a conquistare Parma e Piacenza: Cattaneo prende quindi le distanze. a) dalla monarchia sabauda, b) dalla prassi rivoluzionaria, sia marxista che mazziniana, trovandosi, in questo, d’accordo con Gioberti ed in conflitto con Ferrari; c) dal papa, contrastando così Gioberti e concordando questa volta con Ferrari.
Per questi motivi la tesi di Cattaneo ha preso la denominazione di “neoghibellinismo”, in antitesi con quella neoguelfa di Gioberti.

H) Massimo D’Azeglio ed il “Risorgimento senza rivoluzione”.
Massimo D’Azeglio auspicò la liberazione della penisola italiana non tramite la prassi rivoluzionaria, auspicata, sia pure da punti di vista differenti, da Mazzini e da Ferrari, ma tramite una via diplomatica e moderata di riforme, che ricercasse alleanze all’estero, con la Francia e l’Inghilterra.
D’Azeglio s’inserisce nel dibattito politico risorgimentale confidando, da una posizione liberale e moderata, in un “Risorgimento senza rivoluzione”.
Mostra quindi fiducia nell’evoluzione della società moderna verso il sistema rappresentativo.
Scopo dei sovrani, egli scrive, è rendere felici i sudditi, e questo è possibile solo con una reciproca collaborazione dei Principi tra loro.
Per rendere felici i popoli bisogna appoggiarsi alla forza morale ed alla ragione e rifiutare la prassi rivoluzionaria, che ha fatto leva esclusivamente sulla forza materiale e sulle società segrete, che hanno dimostrato il loro fallimento.
Negli scritti dello storiografo piemontese emerge uno stile pacato, molto diverso sa quello di Mazzini.
Il progresso dev’essere moderato e deve tendere ad un sistema rappresentativo. L’Ottocento dev’essere il secolo del sistema rappresentativo, unico possibile strumento per il progresso sociale, che è invece impossibile nel disordine della prassi rivoluzionaria. Il progresso dev’essere quindi affidato ad un esercito regolare, alle leggi dei Codici, alla stampa, al miglioramento delle vie di comunicazione all’interno della penisola, alla libertà nei commerci, agli studi universitari .
“L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani”, affermerà ancora D’Azeglio nel 1861, subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia, ossia cercare di farli sentire non soltanto abitanti di un medesimo territorio, ma di un medesimo Stato, con leggi comuni, come l’obbligo di pagare le imposte e di svolgere il servizio di leva; si trattava quindi di trasformare una “nazione” in uno “Stato”, compito molto arduo, al punto tale che ancora oggi non sembra completamente realizzato.
Come si è notato, D’Azeglio prende le distanze sia dalla prassi rivoluzionaria che dal neoguelfismo e dal neoghibellinismo di Cattaneo e vede invece proprio nel Piemonte il futuro Stato-guida, unico possibile promotore della liberazione dal giogo austriaco, mediante il gioco politico-diplomatico di alleanze con potenze straniere, quali Francia ed Inghilterra, nel quale il Piemonte sabaudo avrebbe dovuto inserirsi; sarà proprio questa, infatti, la tesi vincente del Risorgimento italiano, che sarà seguita da Cavour.
I) Antonio Gramsci ed il “Risorgimento incompiuto”.
Il mito del Risorgimento incompiuto perché opera di una politica dinastica (dei Savoia) piuttosto che dell’iniziativa del popolo italiano ha attraversato, fin dall’inizio, le ricostruzioni storiche di questa fase di formazione di un nuovo Stato.
In particolare, scrive Antonio Gramsci, si ignorò che il malessere del Sud fosse di origine sociale e si preferì reprimere i contadini del Sud, privandoli di garanzie civili ed affidando all’esercito sabaudo la repressione nelle campagne del Sud.
Il segretario del partito comunista italiano denuncia, nelle sue pagine scritte dal carcere di Turi, presso Bari, il chiaro segno di disinteresse dello Stato nei confronti dei problemi del Mezzogiorno d’Italia: si sono profilate, fin dall’unità, “due Italie”, quella dei ricchi del nord e quella dei poveri al Sud, quella industrializzata ed istruita, quella contadina ed analfabeta. Con disposizioni incuranti dei veri problemi, ma solo spietate, come la legge del ministro Pica nel 1863, si affidarono i processi dei briganti ai tribunali militari e lo Stato spese, per reprimere il brigantaggio, un milione di lire, negli anni ’60, invece di investire al Sud.
La questione meridionale, afferma Gramsci, poteva essere la molla che avrebbe potuto fare del Risorgimento una questione nazionale, invece di rimanere un Risorgimento soltanto del nord e dei Savoia: per questo il Risorgimento è una rivoluzione fallita ed incompiuta. Il vero Risorgimento, afferma il politico sardo, dovrà attuarsi nella Resistenza antifascista.
Oltre alla politica sabauda, Gramsci accusa il partito d’azione mazziniano di aver misconosciuto la questione contadina del Sud ed accusa i garibaldini, seguaci dell’autoritarismo di Francesco Crispi, di avere, in varie occasioni, represso i moti contadini al Sud, facendo il gioco della nobiltà latifondista meridionale, attaccata ancora a privilegi feudali: cita esplicitamente le novelle del Verga, operando così un implicito riferimento alla novella “Libertà” , nella quale il generale garibaldino Nino Bixio, citato esplicitamente da Gramsci, represse con le armi il moto contadino di Bronte nel luglio 1860, che aveva visto la sollevazione dei poveri braccianti di un piccolo paese sulle pendici dell’Etna contro i proprietari terrieri che lo avevano sfruttati .
Circa settant’anni dopo D’Azeglio, Gramsci, sia pure da un punto di vista diversissimo rispetto a quello dello storiografo piemontese, sostiene anch’egli la fondamentale carenza del Regno d’Italia, che è rimasta una nazione, o meglio è diventato uno “Stato senza nazione”.

II.3. Lo “Statuto fondamentale del Regno di Sardegna” o “Statuto albertino” (4 marzo 1848). Cenni sul “connubio” cavouriano ed il “trasformismo” di Agostino Depretis.
Emanato da Carlo Alberto il 3 marzo del 1848 ed entrato a regime il giorno successivo, lo Statuto albertino o “Statuto fondamentale del Regno di Sardegna” fu la carta costituzionale italiana nel secondo Risorgimento e rimase tale per cento anni, fino al 31 dicembre 1947, dal momento che il 1° gennaio 1948 è entrata in vigore la Costituzione della Repubblica italiana; restò quindi in auge anche quando l’Italia non era più un Regno, ma una Repubblica, vale a dire dal 2 giugno 1946, data del referendum. Durante il regime fascista, proprio per il suo carattere “flessibile” e non rigido (a differenza della Costituzione repubblicana, per modificare la quale occorrono particolari procedure) fu ampiamente disatteso e piegato alle esigenze della dittatura.
Nel testo si ribadisce la monarchia secondo la legge salica: le donne sono escluse dalla successione al trono. Nell’incipit si afferma che lo Statuto è concesso dall’alto ed è quindi da intendersi come una concessione del sovrano ai suoi “amatissimi sudditi”: si nega così la categoria illuministica, affermatasi con la rivoluzione francese, di “cittadinanza”. Lo Statuto non è quindi una conquista popolare, né frutto di un accordo del popolo con il re, a differenza della Costituzione monarchico-costituzionale francese emanata da Luigi Filippo d’Orleans nel 1831.
Nel 1° articolo, uno dei meno “illuminati”, si sostiene che il Regno di Sardegna è uno Stato confessionale che riconosce come unica religione di Stato quella cattolica.
Il monarca conserva molti poteri: ha il potere esecutivo e nomina i ministri, quindi è a capo del governo (articolo 65), mentre il potere giudiziario è affidato ai giudici, che sono però anch’essi di nomina regia. Sarà questa una caratteristica costante anche dei governi dell’Italia repubblicana fino ad oggi.
Il potere legislativo è affidato ad un Parlamento bicamerale: il Senato del Regno è di nomina regia e la Camera dei deputati è eletta a suffragio censitario maschile (le donne, in Italia, si recheranno alle urne per la prima volta in occasione del referendum del 2 giungo 1946), con esclusione delle masse popolari (articolo 33 e 39). I sudditi godono della libertà individuale e di stampa, ma una legge vieta gli abusi di quest’ultima (articolo 28).
I sudditi possono adunarsi “pacificamente e senz’armi” (articolo 32).
Il re giura fedeltà allo Statuto (si notano qui gli influssi della “Bill of Rights” del 1689).
I deputati godono dell’immunità parlamentare. La proprietà privata è inviolabile.
Si afferma il concetto di rappresentanza nazionale: i deputati rappresentano tutti gli elettori del Regno e non soltanto le province in cui sono stati eletti.
In conclusione, si può affermare che lo Statuto albertino fu un compromesso tra le esigenze della monarchia sabauda e le aspirazioni popolari, ma il re manteneva, come si è visto, ampi poteri , secondo quelle che saranno anche le linee trasformiste del “connubio” cavouriano tra le forze moderate del centro-destra e del centro-sinistra, con esclusione dell’estremismo repubblicano mazziniano-garibaldino, anche se è doveroso precisare che con Cavour abbiamo assistito ad un ampliamento del legislativo, che assolse anche le funzioni dell’esecutivo e quindi ad un rafforzamento della democrazia. Tale “trasformismo”, consistente in accordi di “sotto banco”, manovre di corridoi e scambi di favori, caratterizzerà proprio il primo governo di centro-sinistra dell’Italia post-unitaria, quello di Agostino Depretis.

CAPITOLO III° DALLO “STATUTO ALBERTINO” ALLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA.

Una Costituzione veramente vitale si ebbe in Italia solo nel 1848, l’anno del grande moto rivoluzionario europeo. Anche nella penisola fu un fiorire improvviso e quasi simultaneo di costituzioni, dall’uno all’altro Stato. In Francia, la seconda repubblica si era data una Costituzione aperta a nuove istanze democratiche e quasi preannunciante una rivoluzione sociale. Ma la fiammata quarantottesca si sarebbe spenta ben presto. Nella Francia repubblicana un’involuzione conservatrice avrebbe portato al secondo Impero e la reazione sarebbe prevalsa in Europa. In Italia, dopo l’esito infelice della guerra d’indipendenza, anche le effimere Costituzioni furono soppresse. Ultimo guizzo, più alto e fugace di tutti, fu, come abbiamo visto, la Costituzione della Repubblica romana del 1849.
Una sola carta costituzionale sopravvisse al grande naufragio: lo Statuto del Regno di Sardegna. Carlo Alberto aveva esitato a lungo, prima di preannunciarne l’emanazione: lo accettò come un male minore, cercando di ridurre al minimo le concessioni. La stessa denominazione di “Statuto” fu scelta per cancellare quel che di rivoluzionario, di troppo avanzato, sembrava allora implicito nel nome stesso di Costituzione. Il testo ricalcava le ormai invecchiate Costituzioni del 1814 e del 1830, e parzialmente anche quella belga del 1831. La monarchia restava il perno di tutto il sistema. Pochi erano gli articoli dedicati ai diritti di libertà dei cittadini; il rinvio che in essi si faceva alle leggi regolanti l’esercizio di tali diritti ne riduceva il valore primario, fino quasi a vanificarlo, in quanto consentiva a successive leggi ordinarie (come in effetti sarebbe poi accaduto) di limitare o addirittura sopprimere o sospendere i diritti di libertà formalmente riconosciuti dallo Statuto.
Eppure proprio questa carta costituzionale, così timida nelle apparenze e nella sostanza, sarebbe vissuta a lungo. La lealtà di Vittorio Emanuele II, la geniale politica cavouriana, la fede liberale della maggioranza in Parlamento le permisero di superare le prove dei primi anni, in un’Europa che sembrava inclinare verso la reazione.
Quando giunse, nel 1859, l’ora delle annessioni a mezzo di plebisciti, la richiesta di una Costituente (che era pur stata promessa per la Lombardia nel 1848) venne abbandonata. Lo Statuto divenne così, senza forti contrasti, il fondamento costituzionale del Regno d’Italia. Questa sua rispondenza all’evolversi della situazione politica del paese si attuò senza scosse. Superate le incertezze iniziali, prese lentamente piede e si consolidò una prassi consuetudinaria la quale fece sì che il governo, per restare in carica, dovesse avere la fiducia della maggioranza parlamentare. Con ciò l’asse effettivo del sistema costituzionale venne a spostarsi dal monarca verso il governo, che era a sua volta l’espressione del Parlamento. Si passava cioè, come si suol dire, da un “regime costituzionale puro” (quale era stato inizialmente designato dallo Statuto, e che riservava al sovrano un preminente potere di iniziativa) ad un “regime parlamentare”, di cui era fulcro il Parlamento.
Questo trapasso dall’uno all’altro sistema non era certo un fatto nuovo nella storia europea; ed il più illustre ed antico precedente era fornito dalla storia parlamentare britannica.
Questo fenomeno, prodottosi spontaneamente nel Regno di Sardegna, all’infuori della previsione dello Statuto, indicava quale forza, anche rispetto alla Corona, avessero raggiunto le forze politiche rappresentate in Parlamento, sotto l’energica guida di Cavour. Diverso fu il corso delle cose nella Prussia di Bismarck e poi nel Reich germanico, ove quel trapasso di cui si è detto non si verificò, e si rimase quindi fermi al sistema cosiddetto costituzionale. Nell’Italia unita, invece, il regime parlamentare si venne rafforzando a scapito dei poteri originariamente attribuiti alla monarchia dallo Statuto. E lo si vide anche in ciò, che il potere di scioglimento anticipato della Camera, prerogativa del sovrano, fu di fatto esercitato dal Governo; e la stessa composizione del Senato di nomina regia fu nella sostanza decisamente influenzata dal Governo, mediante le periodiche “infornate” di senatori di cui esso si faceva promotore; né infine il re mai si avvalse della prerogativa concessagli dallo Statuto di rifiutare la propria “sanzione” alle leggi votate dal Parlamento. Si comprende da ciò che verso la fine del secolo, quando in Italia si profilò il tentativo, in ambienti conservatori e reazionari appoggiati al « partito di corte », di sottrarre al Parlamento le prerogative che ormai esso i era di fatto assicurate, e di rinvigorire l’esecutivo e la monarchia Sidney Sonnino caldeggiasse questa svolta all’indietro con un articolo famoso sulla « Nuova Antologia» dal titolo significativo: Torniamo allo Statuto. Con esso infatti si auspicava il ripristino del sistema voluto da Carlo Alberto nel 1848. Ma la crisi di fine secolo rivelò l’impossibilità di un ritorno al passato. Lo Statuto, nella prassi interpretativa instauratasi da molti decenni, aveva ormai mutato fisionomia.
Nonostante la Sua vitalità, e la sua adattabilità all’evolversi della situazione politico-parlamentare, lo Statuto mantenne sempre, rispetto ai diritti di libertà ed alle istanze di progresso democratico, la timidezza e l’angustia che ne avevano caratterizzato le origini. Anche quando, all’indomani della prima guerra mondiale, furono votate nuove Costituzioni ben più democraticamente disposte ad accogliere i diritti sociali e a rafforzare e garantire gli stessi tradizionali diritti di libertà (prima fra tutte la Costituzione di Weimar del 1919 per la Germania), le proposte di ammodernare e ampliare le nostre ormai invecchiate norme costituzionali rimasero lettera morta. Ma ben più grave fu un’altra circostanza. Si tenga ben presente che lo Statuto era una Costituzione flessibile, non una Costituzione rigida. In altre parole: i suoi articoli, sprovvisti di quella durezza che pone le norme costituzionali al di sopra e al riparo dalle altre norme legislative, potevano venir modificati senza alcun particolare procedimento di revisione costituzionale, e cioè mediante una qualsiasi legge ordinaria, o con un decreto avente forza di legge. Ciò aveva più volte reso possibile, nel corso della nostra storia unitaria, l’emanazione di leggi di polizia più o meno gravemente restrittive delle libertà statutarie, senza che fosse offerto alcun mezzo per salvaguardare le norme contenute nello Statuto, agevolmente modificabili con leggi ordinarie; tanto più che, come si è visto, gli stessi articoli dello Statuto relativi
ai diritti di libertà prevedevano l’emanazione di leggi limitanti l’esercizio di tali diritti. Sicché lo Statuto albertino non arrivò mai a proteggere lo Stato liberale da norme illiberali. La Sua debolezza era il riflesso del troppo fragile e contrastato sviluppo della democrazia nel nostro paese.
Ma il fatto ancor più grave era che, per questa stessa via dell’emanazione di leggi ordinarie, lo Statuto potesse anche venire smantellato pezzo per pezzo e praticamente annullato (pur rimanendo formalmente in vigore) quando i principi liberali, che avevano sia pur imperfettamente retto la vita dello Stato unitario, fossero venuti meno. È quel che avvenne in Italia sotto il regime fascista. Soffocate con la violenza le opposizioni, soppressi i partiti all’infuori dell’unico, il Partito nazionale fascista, schiacciati uno dopo. l’altro i diritti di libertà, ridotto il Parlamento, attraverso successive modifiche (fino alla creazione, nel 1939, della cosiddetta « Camera dei fasci e delle corporazioni»), a semplice cassa di risonanza della volontà dell’Esecutivo – e per esso del suo capo, il « duce» Benito Mussolini -, si ebbe uno Stato nuovo, prima autoritario, poi addirittura totalitario. Lo Statuto, pur non essendo formalmente abolito, si ridusse a una facciata di cartapesta. Dal punto di vista costituzionale, la trasformazione più accentuata si compì tra il 1925 e il 1928: con la legge 24 dicembre 1925 sulle attribuzioni e prerogative del Capo del Governo, che in effetti concentrava tutti i poteri nelle mani del « duce », la legge 31 gennaio 1926 sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche (che in pratica esautorava il Parlamento della sua normale funzione legislativa), la liberticida legge 25 novembre 1926 per la difesa dello Stato, con la quale veniva creato il Tribunale Speciale e si ristabiliva la pena di morte, e la legge 9 dicembre 1928 sull’ordinamento e le attribuzioni del Gran Consiglio del fascismo, che da organo di partito diventava organo dello Stato, condizionante gli altri organi costituzionali, e in un certo senso ad
essi sovrapposto.
Soltanto il finale disgregarsi del regime e dello Stato, travolti dalla dissennata guerra a fianco della Germania, indusse Vittorio Emanuele III, favorito e incoraggiato da una contemporanea iniziativa di una parte del Gran Consiglio, a sbarazzarsi di Mussolini, il 25 luglio 1943. Con questo «colpo di Stato» in extremis, il monarca si illudeva di poter ancora operare alla chetichella una restaurazione dell’originario assetto costituzionale di un secolo prima, un vero e proprio « ritorno allo Statuto ». Di questo proposito della Corte e dei suoi consiglieri era chiaro segno il decreto del 2 agosto 1943 col quale, sciolta la Camera dei fasci e delle corporazioni, si prometteva di tornare alla Camera ~ dei deputati elettiva, sull’implicito presupposto della permanenza in vita dello Statuto albertino. Ma questo aveva in realtà da tempo cessato di esistere: la sua morte silenziosa era ormai un fatto compiuto e irrevocabile.
I partiti antifascisti, riunitisi all’indomani dell’armistizio (8 settembre 1943) nel Comitato di liberazione nazionale (CLN), si opposero decisamente alle mire del sovrano, che in tutti i modi cercava di trascinarli e comprometterli sul terreno dello Statuto. Come efficacemente fu detto, si ebbe, fra la monarchia e i partiti antifascisti, una specie di tiro alla fune. Alla fine il governo Badoglio fu costretto a cedere, anche per le pressioni degli stessi governi alleati, che avevano accettato l’Italia come « cobelligerante» al loro fianco contro la Germania. Si giunse così, dopo l’occupazione di Roma nel giugno 1944 e l’assunzione, da parte del principe ereditario Umberto, della luogotenenza generale del regno (del regno, si noti, e non del re, come a sottolineare la provvisorietà di tutto l’ordinamento costituzionale), alla creazione di un nuovo Governo, presieduto da Ivanoe Bonomi e composto dai rappresentanti dei sei partiti del CLN, e all’emanazione del decreto-legge 25 giugno 1944, il quale fu veramente l’atto di nascita del nuovo ordinamento democratico italiano, la « Costituzione provvisoria» che doveva reggere e resse l’Italia fino alla convocazione dell’Assemblea costituente. Con esso, infatti, la scelta delle forme costituzionali, e dunque anche la scelta fra monarchia e repubblica, era rimessa al popolo italiano, «che a tal fine .eleggerà, a suffragio universale diretto e segreto, una assemblea costituente per deliberare la nuova Costituzione dello Stato », e ciò «dopo la liberazione del territorio nazionale ». Per tutto questo tempo, la questione della scelta fra monarchia e repubblica, demandata alla Assemblea costituente, non doveva in nessun modo essere pregiudicata né dai partiti né dal luogotenente: era la cosiddetta «tregua istituzionale ». La funzione legislativa sarebbe stata, nel frattempo, provvisoriamente assunta dal Governo. Più tardi quest’ultimo creò, sempre nell’attesa della Costituente, la Consulta, una specie di parlamento non elettivo, con funzioni puramente consultive.
A liberazione avvenuta (25 aprile 1945), protraendosi oltre il previsto lo stato provvisorio ed eccezionale di cui ora si è detto, si giunse al decreto-legge luogotenenziale 16 marzo 1946, col quale si dispose, a parziale modifica del decreto 25 giugno 1944, che a decidere sulla scelta fra monarchia e repubblica sarebbe stato chiamato, in luogo dell’Assemblea costituente, direttamente il popolo mediante referendum. Il 2 giugno 1946 si ebbero insieme il referendum e le elezioni per la Costituente (a suffragio universale, maschile e femminile). La maggioranza dei voti andò alla repubblica. (Se anche si fosse adottato il discutibilissimo criterio, allora da qualcuno caldeggiato, di computare nel conteggio dei voti le schede nulle e quelle in bianco, la maggioranza sarebbe sempre andata, sia pure con un più ristretto margine, a favore della Repubblica). L’assemblea costituente, entro i limiti precostituiti della forma repubblicana già scelta dal popolo italiano, dopo avere eletto il Capo provvisorio dello Stato, si accinse alla lunga discussione ed elaborazione del testo della Costituzione che, come si è detto inizialmente, entrò in vigore il 1° gennaio 1948. Così nacque la Costituzione della Repubblica italiana.

CONCLUSIONE: LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA, STRUTTURA E CARATTERI.

A) Struttura.
L’Assemblea Costituente era molto numerosa, costituita da 573 membri, tra cui 21 donne, ed ebbe il compito di redigere il futuro testo costituzionale, ma, di fatto, esercitò anche funzione di governo. Si articolò in commissioni e, dato l’ampio numero di eletti, delego la stesura della Costituzione ad una commissione, eletta nel suo seno, di 75 membri, chiamati i “75 saggi”. Operò dal 1946 al 1948.
La Costituzione repubblicana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948 e formata dal capo provvisorio dello Stato (primo presidente della Repubblica) Enrico De Nicola, risulta articolata nel modo seguente :
artt. 1-12 – principi fondamentali;
artt. 13 -54 – diritti e doveri del cittadino;
artt. 55 – 139 – ordinamento della Repubblica.
I – XVII – disposizioni transitorie e finali.
I concetti fondamentali della Costituzione italiana sono i seguenti:
1) il presidente della Repubblica ha poteri limitati e viene eletto in seduta congiunta dalle due Camere, ogni sette anni;
2) il potere esecutivo spetta al governo ed agli organi subordinati, ovvero al Presidente del Consiglio dei ministri, individuato dal Capo dello Stato (generalmente è nominato il segretario del partito che ha ottenuto la maggioranza relativa o assoluta nella tornata elettorale precedente);
3) il fondamento morale della Costituzione è l’antifascismo, unica vera “religione civile” degli italiani;
4) di conseguenza, “è vietata, sotto qualsiasi forma, la ricostituzione del disciolto partito fascista” (XII Disposizione transitoria e finale);
5) il potere giudiziario è di competenza della magistratura, che è separata dall’esecutivo e dal giudiziario (si rispetta pertanto la separazione dei poteri, fondamento di ogni Stato di diritto e di ogni democrazia);
6) il potere legislativo compete al Parlamento bicamerale, costituito dalla Camera dei deputati, costituita da 630 membri, e dal Senato della Repubblica, formato da 315 senatori. Per la Camera, si è elettori a 18 anni ed eleggibili a 25 anni; per il Senato si è elettori a 25 anni ed eleggibili a 40 anni;
7) la Corte Costituzionale si pronuncia sulla costituzionalità delle leggi ed i magistrati sono sottoposti al solo Consiglio Superiore della Magistratura (C.S.M.);
8) la Costituzione italiana è rigida, cioè modificabile soltanto con particolari procedure;
9) la proprietà privata è inviolabile;
10) il diritto di sciopero è ammesso;
11) tutti hanno diritto al lavoro, fondamento dello Stato (art. 1);
12) la libertà individuale di associazione e stampa è inviolabile;
13) tutti i cittadini godono degli stessi diritti senza discriminazioni di razza, lingua, sesso, religione, idee politiche (art. 3);
14) i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica sono regolati dai Patti Lateranensi (art. 7), firmati l’11 febbraio 1929 da Mussolini e dal segretario di Stato pontificio, cardinal Gasparri (I° Concordato tra Stato e Chiesa) e revisionati con il II° Concordato nel 1984 da Bettino Craxi, allora premier;
15) lo Stato riconosce pari dignità a tutte le altre confessioni religiose, che sono libere di organizzarsi secondo i propri statuti purché non contrastino con l’azione dello Stato stesso (art. 8);
16) è ammesso il matrimonio, civile e religioso, ma quello religioso ha anche effetti civili (recentemente sono state legiferate anche le unioni civili tra cittadini dello stesso sesso e di sessi diversi);
17) il servizio militare di leva è obbligatorio e non è ammessa l’obiezione di coscienza (questo articolo è stato revisionato ed attualmente non è più obbligatorio);
18) la religione cattolica viene insegnata nelle scuole (attualmente solo su richiesta, in base alla revisione);
19) lo Stato non assume ex sacerdoti ( attualmente invece li può assumere, in virtù della revisione operata con il “II° Concordato Craxi” del 1984);
20) ai Savoia ed ai loro discendenti è vietato l’ingresso in Italia perché compromessi con il fascismo (oggi sono tornati in quanto questa disposizione transitoria e finale è stata abrogata dal governo Berlusconi);
21) la forma repubblicana non è oggetto di revisione costituzionale (art. 139).
Come si evince, la Costituzione repubblicana fu il frutto di un illuminato compromesso tra le forze moderate, laiche e cattoliche (più cattoliche centriste che laiche) e la sinistra .
Il recentissimo tentativo operato dal governo Renzi di riformare la Costituzione è stato respinto dall’elettorato con il referendum del dicembre 2016.
Affinché, credo, si possa attuare il necessario passaggio dalla nazione allo Stato è necessario, come affermava D’Azeglio, che gli “abitanti” d’Italia si sentano “cittadini”, ovvero membri attivi di una comunità politica che è appunto lo Stato, e si sottopongano concretamente ad una medesima legislazione che deve essere rispettata “de facto”, e non solamente “de iure”: per questo è necessario rendere “sostanziale” la costituzione “formale” , e questo deve essere attuato, in primo luogo, dalle istituzioni, che per prime devono rispettare la legge e dare l’esempio, quindi dal governo e dal Parlamento, che sono gli organi deputati a rappresentare la cittadinanza. Bisogna quindi partire “dall’alto”, non “dal basso”, non dalla base.
Credo, infine, che il presente elaborato possa essere un ausilio didattico, agile ed efficace ad un tempo, per gli studenti del triennio finale dei licei, interessati ad approfondire l’educazione civica, materia che, per ovvi motivi di tempo, risulta, di fatto, quasi sempre completamente ignorata nei programmi scolastici; tuttavia questo in questo lavoro non si sono trattate soltanto questioni di educazione civica o storia moderna, risorgimentale e contemporanea, in quanto molteplici sono stati i riferimenti alla storia del diritto italiano ed al diritto ed alla storia costituzionale.
B) Caratteri.
Alla luce delle precisazioni storiche sin qui fatte, possiamo concludere sulla fisionomia e sui principi essenziali della nostra Costituzione. Essa è, prima di tutto, una Costituzione scritta, e cioè tutta compendiata in un unico testo fondamentale (a differenza di quelle non scritte che, come la britannica, consistono di documenti sparsi nel tempo, di usi e consuetudini, di regole tacitamente accettate da tutti, di prassi interpretative). Le modifiche apportate via via alla Costituzione vengono inserite nel testo originario: e così già si è fatto in Italia per alcune norme relative alla composizione e alla durata delle due Camere elettive, e per la creazione di una nuova regione, il Molise; e si farà per tutte quelle altre modifiche di cui già da tempo sta discutendo una apposita Commissione parlamentare, di cui parleremo più avanti.
Mentre lo Statuto apparteneva al novero delle Costituzioni flessibili, cioè modificabili con leggi ordinarie, la nostra è una Costituzione rigida, la cui revisione è possibile solo mediante le cosiddette leggi costituzionali, che richiedono particolari procedure e maggioranze, e hanno lo stesso valore sostanziale della Costituzione. Si è venuta cosi a creare una diversità di grado fra le norme giuridiche: quelle costituzionali e quelle ordinarie. Le prime non possono essere modificate o contraddette dalle seconde. E un organo apposito, la Corte costituzionale, è destinato a preservare la rigidità o in tangibilità della Costituzione (e ovviamente, di ogni altra norma costituzionale, anche se votate in un periodo successivo alla data della Costituzione), col porre nel nulla tutte le norme dell’ordinamento giuridico che vi siano contrarie: sia quelle preesistenti, sia quelle successive alla sua entrata in vigore. Alla luce di un’amara esperienza storica, si è voluto con sulla quale fu più facile trovare l’accordo. Ma anche un’espressione così “annacquata” può avere un senso, un peso giuridico e politico; né la si può considerare del tutto superflua, come più avanti vedremo.
Quel che si è detto sin qui ci porta a ribadire una verità molto semplice, ma spesso trascurata: per giudicare una Costituzione bisogna sempre risalire alle sue origini, intenderne la genesi storica. Da questo punto di vista, anche la nostra Costituzione ci appare, come tante altre, una polemica col passato. In molte sue norme, è palese la volontà di trarre una lezione da amare esperienze, la preoccupazione, cioè, di impedire e opporsi agli stravolgimenti operati dal fascismo e di rafforzare le garanzie (che nell’Italia prefascista avevano finito per rivelarsi assai deboli) atte a preservare da possibili ritorni di sistemi e metodi polizieschi, oppressivi, autoritari. Si pensi alla minuziosa cura con cui vi sono elencati i diritti di libertà, alla assolutezza inviolabile conferita a ognuno di essi, ai comandi e divieti specificamente intesi a prevenire ogni arbitrario sconfinamento dell’autorità.
Ma la nostra Costituzione, storicamente interpretata, non è solo questo. Essa si riallaccia ai più generosi ideali della Resistenza (ideali di solidarietà, di eguaglianza, di superamento dei nazionalismi, di progresso sociale, di autonomie, in una parola, di democrazia libera e piena), e vuole tradurli nella realtà, a ciò impegnando tutti i cittadini e gli organi dello Stato. Certo, in molti articoli costituzionali noi troviamo anche le tracce di ispirazioni ed esperienze più lontane. Qua e là vi possiamo scorgere le orme di Beccaria, Mazzini, Cavour, Cattaneo; vi riscopriamo perfino – come fu detto alla Costituente – gli «immortali principi» dell’ ‘89, come il cristiano “Sermone della Montagna” o il “Manifesto dei comunisti”. Ma la matrice ideale più immediata e profonda resta pur sempre la Resistenza. Anche sotto questo rispetto, la nostra Costituzione va intesa, al pari di ogni altra, come il frutto di una vissuta e sofferta esperienza storica.
Con estrema sommarietà – riservandoci di tornare per disteso su ognuno dei punti – così possono essere tratteggiati i lineamenti essenziali della nostra Carta costituzionale. È mantenuta la classica ripartizione dei poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario), ma con la predisposizione di organi destinati ad assicurare l’armonico equilibrio dei medesimi e a impedire gli sconfinamenti dell’uno a danno dell’altro, e ciò mediante i cosiddetti « interpoteri» (Capo dello Stato, Corte costituzionale); precisa configurazione e valore primario dei fondamentali « diritti di libertà»; riconoscimento dei « diritti sociali », e correlativo impegno di « rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3); suffragio universale; funzione costituzionalmente rilevante dei partiti e dei sindacati; regime parlamentare, o, in altre parole, centralità del Parlamento; poteri e responsabilità del Presidente della Repubblica, come supremo tutore della Costituzione; autonomia e indipendenza della magistratura; creazione delle Regioni, con poteri anche legislativi, entro i limiti dei principi fondamentali stabiliti dalla Costituzione e dalle leggi dello Stato; Corte costituzionale, quale supremo organo di tutela della Costituzione; revisione di quest’ultima per mezzo di leggi costituzionali; limitato accoglimento della democrazia diretta, attraverso gli istituti del referendum e dell’iniziativa popolare.
I 139 articoli della nostra Carta, nel loro complesso, conferiscono una caratteristica fisionomia alla «Repubblica democratica fondata sul lavoro » (art. 1). Una loro attenta lettura pone in luce ciò che la stessa Costituzione intende per democrazia. E questo a noi basta, senza avventurarci in discussioni – che sarebbero troppo lunghe, ed estranee al compito di questa disciplina, destinata a farci conoscere la reale civitas nella quale viviamo – su quel che, da un punto di vista storico o filosofico o sociologico o politico, debba intendersi per democrazia. In questo senso limitato e testuale, riferito in concreto alla nostra presente Repubblica, democratica è prima di tutto una repubblica in cui tutte le libertà, tutti i diritti dei singoli sono integralmente protetti; e ogni distinzione fra i cittadini è abolita; ed esiste una pluralità di partiti (che insieme liberamente concorrono, per l’appunto « con metodo democratico, a determinare la politica nazionale »: art. 49); e il voto dei cittadini è «personale ed eguale, libero e segreto»; e il governo si fonda sulla maggioranza dei consensi; ma alla minoranza deve essere consentito di diventare, a sua volta, maggioranza; e il suffragio è universale. Tale è una democrazia politica. Ma dalla Costituzione affiorano anche le linee, sia pur vaghe, di una democrazia sociale. Basti pensare al rilievo costituzionale dato al lavoro, come fondamento stesso della Repubblica, come diritto e dovere di tutti i cittadini; o al chiaro concetto che la libertà e l’eguaglianza, per essere tali, debbono esistere non solo di diritto, ma di fatto, cioè realizzarsi mediante una trasformazione della società, che renda effettivi i diritti riconosciuti a ogni individuo.
Abbiamo visto sin qui da quale contesto storico è nata la nostra Costituzione, e con quali caratteristiche. Possiamo concludere che il testo elaborato dai nostri Costituenti, ed entrato in vigore nel 1948, pur con le sue pecche formali e sostanziali, le sue ridondanze, le sue reticenze evasive, i suoi compromessi, i suoi rinvii a un bellissimo ma imprecisato futuro, è uno dei più ricchi ed elevati fra quanti sono nati, in Europa e nel mondo, all’indomani della seconda guerra mondiale. E non solo possiamo, ma anzi dobbiamo dirlo, per reagire a certe stolide, estremistiche condanne e sprezzanti rifiuti, che sono, a ben guardare, frutto di ignoranza storica, se non di astioso spirito di denigrazione.
Dobbiamo nello stesso tempo riconoscere che, dal 1948 in poi, l’acuirsi dei contrasti fra i partiti dell’« arco costituzionale» (come si suoI dire), e una certa timidezza delle maggioranze che da allora si sono susseguite al potere, hanno causato la ritardata o addirittura mancata attuazione di leggi e istituti previsti dalla Costituzione: come, per menzionare i più importanti, la Corte costituzionale, le Regioni, il Consiglio Superiore della Magistratura, il referendum, una legge regolatrice dello sciopero. E di altre norme della Costituzione si è avuta, da parte dei pubblici poteri, una interpretazione troppo timida, o distorta, che ne tradiva lo spirito. Di anno in anno, si è rafforzata, e ha finito per prevalere, una effettiva prassi che si è sempre più allontanata dall’originario disegno tracciato dalla Costituzione. Anche e soprattutto perché, mentre questa restava immobile sulla carta dove era stata scritta, il mondo camminava e si trasformava, ponendo nuovi problemi, ed esigendo nuove regole. Da ciò è nata la distinzione, ormai pacificamente invalsa tra gli studiosi, fra la Costituzione formale, che è quella originariamente redatta e votata dai Costituenti, e la Costituzione materiale, che è quella effettivamente vigente, determinata dalle forze politiche e sociali, le quali possono anche non avere interesse all’attuazione di alcune norme costituzionali, lasciate pertanto del tutto inoperanti e come dimenticate, o addirittura pongono in essere, di fatto, consuetudini e comportamenti divergenti dalla lettera del testo costituzionale. Anche questo divario fra la Costituzione formale e quella materiale è un fenomeno che abitualmente ricorre nella storia moderna e contemporanea, e non può essere motivo di stupore, e tanto meno di scandalo, per chi sappia scorgere, al di là delle formule solenni scritte sulla carta, il premere della realtà in continua trasformazione.
È fuor di dubbio che anche in Italia diversi principi della Costituzione attendono ancora di essere attuati, anche se, negli ultimi tempi, si sono fatti passi notevoli per porre riparo all’indugio. Per una integrale attuazione è mancata una concorde e decisa volontà politica. Inoltre, nel nostro ordinamento giuridico sono rimaste tuttora in vigore vecchie norme, che mal si conciliano con i precetti costituzionali, a causa della tenace sopravvivenza di una mentalità, di un costume, di metodi autoritari legati a un passato recente e remoto. Molte di queste flagranti disarmonie fra il vecchio e il nuovo sono già state eliminate dalla Corte costituzionale, entrata in funzione nel 1956. Ma non poco resta ancora da fare su questa strada.
Dobbiamo infine guardarci dal magnificare la nostra Costituzione come un insuperato modello di originalità e modernità. A ben guardare, essa ci rivela alcuni suoi tratti ancora ottocenteschi. Non a torto la si è definita da qualcuno un « traguardo del passato »: che è poi una caratteristica, più o meno, di tante se non di tutte le Costituzioni, legate al momento storico in cui sono nate, e pertanto destinate, col tempo, a invecchiare. Dal 1948 in avanti, nuove realtà sono emerse e tengono il campo; e rispetto ad esse la nostra Costituzione appare inadeguata. Si pensi alla società di massa, allo Stato industriale, alla programmazione, ai mass media, alla crescente importanza dei partiti e dei sindacati, alle trasformazioni dell’economia, ai vertiginosi progressi scientifici e tecnologici. E inoltre sono venuti alla luce -inceppamenti, disfunzioni, inadeguatezze per questo fatale invecchiamento delle norme costituzionali, rimaste immobili mentre la realtà mutava, e assumeva sviluppi che i Costituenti non avevano potuto prevedere. Sicché il divario tra la Costituzione formale e quella materiale si è approfondito col passare del tempo; e in questi ultimi anni si è fatto sempre più serio e assillante il problema di una riforma della Costituzione del 1948.
Per rispondere a questa sentita esigenza, è stata posta in essere, negli ultimi mesi del 1983, una Commissione parlamentare per le riforme istituzionali che, sotto la presidenza dell’onorevole Aldo Bozzi, ha lavorato per circa un anno. (Lo schema di relazione conclusiva, redatto dal Presidente, porta la data del 12 novembre 1984).
Una sola precisazione ci pare, a questo punto, necessaria. La prima e fondamentale scelta che la Commissione si è trovata nella necessità di affrontare è stata quella tra un progetto di riforma che, pur modificando incisivamente taluni aspetti dell’ordinamento istituzionale, soprattutto allo scopo di ovviare alle lacune e agli inceppamenti rivelati dall’esperienza fatta, si mantenesse fedele ai principi ispiratori e all’impianto stesso della Costituzione del 1948; e la proposta di un radicale mutamento del sistema dei pubblici poteri, e insomma la stesura di una nuova Costituzione, che fosse di base a una « seconda Repubblica ». A grandissima maggioranza la scelta si è orientata nel primo senso, quello del mantenimento dei principi fondamentali della Costituzione repubblicana, pur con le rettifiche e gli aggiornamenti suggeriti dall’esperienza. E questa a noi pare la scelta più saggia. Non lasciamoci tentare dal miraggio di una Grande Riforma, che butti all’aria la Carta del 1948, e sia di base a una seconda Repubblica. Un pensatore austero, e tutt’altro che incline al facile ottimismo, Norberto Bobbio, ha detto che la nostra Costituzione « ha resistito sinora alla prova dei logoramenti, degli insabbiamenti, dei tentativi di inversione e di sovversione» ed è ancora oggi « il punto di riferimento principale per dare un giudizio sul bene e sul male delle nostre istituzioni ». Non dobbiamo farne un idolo o un feticcio, posto al di sopra o al di fuori della storia che cammina. Ma proprio per questo dobbiamo anche saperne cogliere gli spunti innovatori, e svilupparli; intenderne i comandamenti e gli insegnamenti per la società d’oggi e di domani. È il compito precipuo, a mio avviso, delle nuove generazioni. Dipenderà dal loro impegno farla diventare carne e sangue di un nuovo Stato, di una nuova società.
Pochi cenni infine, per inquadrare la nostra Costituzione nel vasto mondo in cui viviamo. Oggi i testi costituzionali si sono diffusi da un paese all’altro, con caratteristiche assai diverse. Fino alla prima guerra mondiale si era avuta una sostanziale omogeneità di strutture costituzionali, pur nella diversità dei tipi (parlamentari o presidenziali, a seconda del prevalere dell’uno o dell’altro organo) e dei modelli storici (britannico, francese, nordamericano). E nonostante certi preoccupanti fenomeni in alcuni paesi (in primo luogo l’instabilità dei governi, troppo esposti alle mutevoli maggioranze e alle conseguenti crisi ministeriali, come in Italia e, durante la Terza Repubblica, in Francia) molte Costituzioni avevano dimostrato una notevole longevità. Questo pacifico e uniforme stato di cose era stato messo in crisi dalla prima guerra mondiale. Alla fine di quel conflitto si aprì un nuovo periodo nella storia delle Costituzioni. Ci fu, innanzitutto, un loro estendersi ad altri paesi europei ed extraeuropei. E’ si ebbe, poi, il differenziarsi e il divaricarsi dei sistemi costituzionali. Sopravvisse il sistema tradizionale; ma si ebbe, da un lato, una sua razionalizzazione (cioè la predisposizione di congegni atti a ovviarne i palesi difetti, come le troppo frequenti crisi parlamentari, o lo squilibrio dei poteri), e, dall’altro, per l’avanzata dei partiti di massa e del movimento operaio, un posto più largo fatto ai diritti sociali. Esempi tipici di questa razionalizzazione e maggiore apertura sociale, la Costituzione di Weimar (1919), e quella della Repubblica spagnola (1931).
Ma un altro, e del tutto diverso indirizzo costituzionale fu sollecitato dalla rivoluzione russa del 1917. Già Lenin aveva scritto: «Dopo la presa del potere, la classe operaia lo detiene e mantiene e consolida (come ogni altra classe) col mutare il rapporto nei riguardi della proprietà e con una nuova Costituzione.». Nell ‘URSS, dopo i primi testi del 1918 e del 1924, assurse così a modello della nuova società e del nuovo Stato la Costituzione del 1936. La diversità di questa dalle altre di tipo classico è fondamentale. Un vero e proprio capovolgimento di principi: abolita la distinzione dei poteri, tutti concentrati in un’assemblea, ma in realtà nel Presidium come suo organo supremo; preminenza dei diritti sociali e degli interessi socio-economici sui tradizionali diritti di libertà; affidato alla stessa assemblea legislativa il controllo sulla legittimità costituzionale delle leggi; un partito unico, al centro dello Stato; pianificazione economica; abolizione della proprietà privata dei grandi mezzi di produzione. Frattanto, mentre nell’URSS tutto si raggela nella ferrea dittatura staliniana, diverse Costituzioni dell’Europa occidentale sono travolte. Dell’Italia abbiamo già detto. Più grave e radicale è l’avvento del nazionalfascismo, che pone fine alla Costituzione di Weimar; e Franco e Salazar, in Spagna e in Portogallo, restringono e soffocano le libertà costituzionali. Sono gli anni in cui si afferma, anche sul piano costituzionale, la tendenza degli Stati autoritari e totalitari: i quali non danno vita a nuove Costituzioni scritte (da essi viste con ostile sospetto), ma vi contrappongono leggi demolitrici e una sopraffattrice pratica di governo. La crescente tensione fra gli Stati (che si riflette anche in campo costituzionale) sfocia nella seconda guerra mondiale.
Il secondo dopoguerra vede da un lato il «razionalizzarsi » e il progressivo aprirsi a precise istanze sociali delle Costituzioni democratiche di tipo tradizionale, e il loro estendersi ad altri paesi come il Giappone e l’India, pur con caratteristiche proprie; dall’altro, per la predominante influenza sovietica, un avviarsi dei paesi dell’Europa centrorientale a Costituzioni prima di cosiddetta « democrazia popolare» (in alcune delle quali inizialmente sopravviveva qualche residuo delle precedenti Costituzioni di tipo occidentale), e poi « socialiste ». Un posto a sé ha preso, dopo il distacco di Tito dalla Russia staliniana, la Jugoslavia, con una Costituzione ispirata al principio del decentramento del potere statale e dell’autogestione socioeconomica, e caratterizzata da qualche istituto estraneo al modello sovietico, come il controllo della magistratura sulla legittimità costituzionale delle leggi ordinarie. Da queste Costituzioni dell’Europa orientale appare la grande distanza fra i principi astratti in esse enunciati e la realtà effettuale, fra i grandi ideali del socialismo e il cosiddetto «socialismo reale».
Sulla scia di questo costituzionalismo dei paesi socialisti si sono messi la Repubblica Popolare Cinese e altri Stati asiatici, come pure Stati di altri continenti. Un posto a sé, in questo disseminarsi di Costituzioni nel secondo dopoguerra, hanno diversi paesi in via di sviluppo nel Terzo Mondo; molti dei quali, specialmente nella fase iniziale seguita alla decolonizzazione, sembravano ispirarsi ai modelli classici occidentali, ma con alcuni connotati particolari, dovuti alla loro arretratezza economica, a contrasti di casta o tribaIi, al nazionalismo esasperato, al predominio del ceto militare, a un socialismo più di facciata, spesso, che di sostanza: da ciò il prevalere di orientamenti « presidenziali» di stampo autoritario, il partito unico, la restrizione delle libertà politiche e parlamentari, ecc. Anche nel campo delle Costituzioni di democrazia tradizionale si sono avute svolte considerevoli, con rafforzamento dell’esecutivo e dei poteri presidenziali, come in Francia. In conclusione, questo secondo dopoguerra ha visto il diffondersi delle Costituzioni in tutto il mondo (anche se, nel fatto, spesso ridotte a un simulacro, a un guscio vuoto), ma anche un’estrema varietà di tipi: da quello classico, liberal-democratico, di stampo occidentale, a quello socialista, dai paesi del Terzo Mondo agli ultimi residui dell’autoritarismo di marca fascista in alcuni Paesi latino-americani, dove, per valerci della formula coniata da un costituzionalista, la «tecnica dell’autorità» ha prevalso sulla « tecnica della libertà », e la dispotica realtà di fatto sulle statuizioni di principio.
Con il crollo del muro di Berlino (1989) e la fine del “socialismo reale” nei Paesi dell’Europa dell’Est (1991), gli Stati Uniti sono rimasti, per anni, l’unica guida del mondo, ma oggi anche tale guida monolitica è finita e si sta andando sempre più verso un mondo multipolare, con l’avvento, sulla carta geopolitica planetaria, di altre potenze economiche emergenti, quali la Russia di Putin, l’India, la Cina.
E mentre l’Europa, a causa dei crescenti flussi migratori da Paesi africani e mediorientali e del terrorismo di matrice islamista, stenta a sopravvivere, messa in crisi dalle sempre più forti istanze nazionalistiche e protezionistiche che si stanno affermando nell’Italia di Salvini come nella Francia di Marine Le Pen e nell’Austria di Hofer, le recenti elezioni americane hanno visto la vittoria del repubblicano Trump, punto di riferimento per i nazionalismi xenofobi europei di estrema destra.
In questo difficile contesto l’Italia sembra, per il momento, riuscire, non senza difficoltà, a mantenere un assetto democratico, ma resta il problema di un’Unione Europea che non sia soltanto un’etichetta, bensì una realtà, volta non a costruire muri, ma a collaborare reciprocamente per far fronte alle sfide che l’era del post-moderno (per usare un’espressione del filosofo Gianni Vattimo) e le “società complesse”, come le ha definite il filosofo francese Edgar Morin, costantemente ci pone, prima tra tutte, quelle dell’emergenza immigrazione.
In questo quadro sorge sempre più la necessità di un’unità non soltanto monetaria, ma politica, di una Costituzione europea che sia sentita, reale, e conciliabile con le singole Costituzioni nazionali.
Ed ecco emergere ancora la problematica sottolineata, in epoche storiche diverse e da divergenti ottiche politiche, da Massimo D’Azeglio, liberale, storiografo del secondo Ottocento, e da Antonio Gramsci, leninista, politico del primo Novecento, quello di una Costituzione veramente “materiale”, cioè applicata e sentita, quello di rendere una nazione uno Stato.

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INDICE
CAPP./PARR. TITOLI PP.
Frontespizio-titolo. 1
INTRODUZIONE 2
I. DALLA “BILL OF RIGHTS” ALLA “COSTITUZIONE DELL’ANNO III°”. 5
I.1. La “Magna Charta Libertatum” (1215) e la “Bill of Rights” (1689): le origini del costituzionalismo inglese. 5
I.2. La “Dichiarazione d’indipendenza americana” (4 luglio 1776) e la “Costituzione degli Stati Uniti d’America” (1787): un ‘ponte’ verso la Francia. 8
I.3. La Francia dalla “Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino” (26 agosto 1789) alla Costituzione dell’anno III° (1795). 13
II. IL PERCORSO COSTITUZIONALE NEL RISORGIMENTO EUROPEO. 21
II.1. Le prime Costituzioni dell’Ottocento in Italia ed in Europa. 21
II.2. Il dibattito storiografico sul Risorgimento italiano. 31
II.3. Lo “Statuto fondamentale del Regno di Sardegna” o “Statuto albertino” (4 marzo 1848). Cenni sul “connubio” cavouriano ed il “trasformismo” di Agostino Depretis. 39
III. DALLO “STATUTO ALBERTINO” ALLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA 41
CONCLUSIONE: LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA, STRUTTURA E CARATTERI. 46
BIBLIOGRAFIA. 57
A)FONTI PRIMARIE. 57
B)FONTI SECONDARIE. 58
FILMOGRAFIA. 60
INDICE 61

Stato senza nazione: dibattito su un Risorgimento fallitoultima modifica: 2018-02-11T23:06:31+01:00da m_200
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